In tredici anni di governo il partito di Blair ha innovato la politica europea nel nome del socialismo liberale. Chi raccoglierà il testimone?
Critica Sociale, 27 maggio 2010
"Prima che io parli del nuovo governo, consentitemi di dire qualcosa a proposito dell'esecutivo uscente. Rispetto allo scorso decennio, questo Paese è più aperto al suo interno e più compassionevole all'estero. Dovremmo essere grati di tutto ciò." Il riconoscimento di David Cameron al momento di assumere la carica di premier offre uno spaccato significativo del lungo mandato di governo del New Labour. In effetti, il conservatore Cameron ha in questi anni osservato con attenzione le politiche neo-laburiste di Tony Blair e ne ha tratto spunto per correggere e ammodernare alcuni capisaldi della teoria politica del suo partito. Ora dovrà dimostrarsi in grado di innovare realmente, superando le rigidità e le resistenze del conservatorismo britannico, in modo da governare al meglio le complessità di un Paese di sessanta milioni di abitanti. Lo dovrà fare a maggior ragione nel quadro di un governo di coalizione, con tutte le variabili che esso comporta. La sfida è aperta. Una sfida che per oltre un decennio il Labour ha sostanzialmente vinto, sostiene Pia Locatelli, Presidente dell'Internazionale Socialista Donne e componente dell'Esecutivo dell'Internazionale Socialista.
Quale giudizio sull'esperienza di governo del New Labour?
Positivo. Per chi come me si occupa di promuovere la cultura del lavoro e la formazione, il concetto rivoluzionario di welfare introdotto da Tony Blair in Gran Bretagna ha rappresentato un'innovazione significativa. Il New Labour ha sfatato tabù consolidati nella sinistra europea, parlando apertamente di giustizia ed equità nel mondo del lavoro, ma anche di responsabilità da parte dei lavoratori e del loro dovere di contribuire al bene comune. Questa è l'essenza del socialismo liberale. In Italia spesso si è guardato con diffidenza al modello proposto da Londra negli ultimi anni, dimenticando che nel nostro paese la protezione sociale è garantita solo a determinate categorie di lavoratori, non a tutti. In Gran Bretagna in questi anni si è fatto in modo che nessuno rimanesse completamente abbandonato a se stesso. In tutta sincerità, possiamo dire che nel nostro Paese sia accaduta la stessa cosa? E che dire dell'impegno di Downing Street a favore delle donne e del loro diritto a essere madri e lavoratrici? Negli ultimi tredici anni in Gran Bretagna si è incentivata la partecipazione delle donne al mondo del lavoro in maniera significativa. Un dato che dovrebbe farci riflettere, se consideriamo che in Italia la percentuale di occupazione femminile si aggira intorno al 46-47%. I governi del New Labour hanno previsto una serie di incentivi affinché alle madri convenisse tornare al lavoro, garantendo loro servizi di sostegno adeguati e orari flessibili, e soprattutto partendo dal presupposto fondamentale che l'occupazione femminile rappresentasse una risorsa imprescindibile per la salute del sistema Paese.
Certamente, non si tratta di un esempio virtuoso unico in Europa. Non dimentichiamo quanto fanno su questo fronte i governi scandinavi. Tuttavia, è ben più agevole gestire una comunità nazionale di pochi milioni di persone rispetto a un paese della complessità della Gran Bretagna o dei grandi Stati dell'Europa continentale. Inoltre, il sistema nordico, con le sue rigidità, non sempre si rivela così efficiente. Il mese scorso a Oslo, durante l'Esecutivo regionale dell'Internazionale Socialista Donne, si è discusso del persistente gap salariale tra uomini e donne. Ebbene, il fatto che proprio in Norvegia (Paese considerato tra i più ricchi e civili al mondo) le donne entrino massicciamente nel mondo del lavoro determina per paradosso un aumento del cosiddetto pay gap. Infatti, la stragrande maggioranza delle lavoratrici in ingresso va a occupare le posizioni meno remunerative e questo incide negativamente sull'equità dei salari tra i due generi.
Dove ritiene che il Labour abbia sbagliato?
In tanti a sinistra, e non solo in Gran Bretagna, criticano con asprezza l'operato di Blair, a mio avviso ingenerosamente. Da questo punto di vista, fatale al leader laburista è stata la partecipazione alla guerra in Iraq. Un errore che anch'io in effetti non comprendo. All'epoca speravo che Blair, grazie al suo carisma, riuscisse a dissuadere il presidente americano George W. Bush dal lanciarsi in un'impresa tanto rischiosa e apparentemente ingiustificata. In tutta evidenza, troppo forte si è rivelata la pressione sul presidente Usa dei falchi della sua amministrazione, personaggi sinistri come il vice-presidente Dick Cheney e come il ministro della Difesa Donald Rumsfeld. A fronte di ciò, il premier britannico ha preferito consolidare la storica vicinanza con l'alleato americano, in un momento in cui la logica del "o con noi, o contro di noi" sembrava prevalere inesorabilmente.
Questa è storia, ma io inviterei i detrattori di Blair alla cautela, soprattutto se il loro obiettivo è utilizzare l'errore iracheno per mettere in discussione l'intero operato di un leader che per un decennio ha guidato la modernizzazione della Gran Bretagna e ha mantenuto comunque notevoli livelli di popolarità. I tre larghi successi elettorali del 1997, 2001 e 2005 lo stanno a dimostrare.
Una popolarità non costruita soltanto sullo charme personale, quanto piuttosto sull'ideazione e lo sviluppo di politiche concrete. Io tengo particolarmente all'istruzione e non dimentico i danni prodotti da un decennio di thatcherismo, con i drastici tagli al sistema educativo britannico. Il motto del giovane Blair nel 1997 è stato invece: "Education, education, education". Un impegno che egli ha portato avanti con coerenza negli anni di governo, così come corretta e innovativa si è rivelata la sua impostazione di fondo in tema di servizi pubblici, resi più efficaci, competitivi e fruibili.
Con il patto Cameron-Clegg l'ipotesi di un governo Lib-Lab in Gran Bretagna deve ritenersi perlomeno rinviata. Il Labour deve prepararsi all'opposizione, al pari della grande maggioranza dei partiti che in Europa si richiamano al centro-sinistra.
Credo ancora che una convergenza con i liberaldemocratici possa rilanciare l'agenda riformatrice del Labour, ma la prospettiva a breve-medio termine è quella dell'opposizione parlamentare. Il partito dovrà pertanto ripartire e affidarsi a una nuova leadership giovane, che potrebbe essere rappresentata da David e Ed Miliband, i ministri uscenti degli Esteri e dell'Energia. La Conference autunnale di Manchester, alla quale parteciperò con entusiasmo, sarà un momento importante per il ricambio generazionale laburista. Speriamo rappresenti un nuovo inizio, anche a livello programmatico.
Meno fiduciosa sono riguardo alle sorti del centro-sinistra italiano. Il PD non funziona. L'obiettivo dichiarato dai suoi dirigenti è andare oltre il modello prevalente in Europa, che vede una chiara distinzione tra forze popolari/conservatrici da un lato e socialdemocratiche/progressiste dall'altro. Il fatto che il PD voglia saltare il passaggio socialdemocratico potrebbe anche rappresentare una novità interessante, se non si risolvesse, come pare, in una stanca riedizione del compromesso storico tra l'ex PCI e l'ala sinistra dell'ex DC. Un risultato incomprensibile, inconcludente e obsoleto.
Sarei la prima a rallegrarmi se il PD si trasformasse in un vero partito socialdemocratico con la possibilità di un scatto in avanti in senso liberale. Si tratta tuttavia di una prospettiva che sento lontana e confusa e per questo rimango, con convinzione, socialista. Cosa significa essere socialista oggi in Italia? E' una forma di resistenza al conformismo di sinistra, anche se è una scelta difficile da sostenere. Si rischia infatti l'espulsione dal parlamento (grazie all'ingiusta legge elettorale attualmente in vigore) e il bando da parte di certa stampa. Pensiamo al modus operandi di Repubblica: quello che dovrebbe essere il quotidiano di riferimento del centro-sinistra italiano ha risolto il problema socialista cancellandolo.
Vorrei concludere ricordando ai progressisti che le condizioni oggi in Italia sono cambiate. La sinistra dichiara da sempre di voler difendere i settori più deboli della popolazione, ma oggi non sembra più in grado di identificarli, se non parzialmente. Mentre il centro-destra e la Lega Nord intercettano sempre più l'umore delle classi lavoratrici, il centro-sinistra non sembra nemmeno in grado di combattere una battaglia culturale e politica a favore dei giovani ricercatori (sottopagati e costretti a emigrare) e delle donne, che io considero le risorse fondamentali per rilanciare il Paese. In particolare, insisto, non valorizzare il ruolo lavorativo delle donne costituisce un fardello insopportabile. Motivo per cui personalmente mi batto contro il quoziente famigliare e contro qualsiasi altra scelta politica che impedisca alle donne di partecipare con le proprie abilità e le proprie professionalità alla crescita dell'Italia a livello degli altri grandi Stati europei. (A cura di Fabio Lucchini)
-Giddens: L'ascesa e la caduta del New Labour