Cosa vi di è nuovo e cosa è ormai superato? Un’analisi equilibrata degli anni di Blair e Brown dovrebbe essere alla base della ricostruzione ideologica del Labour
Anthony Giddens, Policy Network, 17 maggio 2010,
L'era dell'egemonia laburista è finita. Come dobbiamo valutarne l'eredita? Molti in questi giorni screditano il record governativo del partito negli ultimi tredici anni. Persino alcuni sostenitori tendono a sottolineare che, dal punto di vista sostanziale, poco sia in realtà stato realizzato. I critici più affilati sostengono addirittura che il Labour al potere - il Labour come New Labour - si sia rivelato più di una delusione, un disastro. Il partito ha sotterrato le libertà civili, ha fallito nel ridurre l'ineguaglianza e, peggio ancora, ha imbarcato il Paese nella funesta guerra in Iraq. Il New Labour aveva promesso una "Nuova Alba" e, devo dire, anch'io condivido in parte la delusione di molti. Tuttavia, ritengo che se si vogliono stabilire i presupposti per un futuro riscatto, siano necessarie una robusta difesa di molte delle politiche intraprese dal Labour e una valutazione più bilanciata delle stesse. Un realistico punto di partenza può essere il confronto tra la durata dei governi laburisti e di quelli, coevi, dei partiti (teoricamente) fratelli dell'Occidente: parlo dei Democratici di Bill Clinton negli Stati Uniti, dei socialisti francesi di Lionel Jospin e dell'Spd di Gerhard Schröder. Il Labour ha conservato il potere più a lungo di tutti costoro, a dire il vero più di qualsiasi formazione di centro-sinistra nei tempi recenti, partiti scandinavi inclusi. Già questo è un segnale positivo, se si considera che i laburisti mai in precedenza erano rimasti alla guida della Gran Bretagna per almeno due mandati pieni di governo.
La svolta ideologica associata all'invenzione del termine "New Labour" è stato il motivo principale dei successi elettorali. New Labour non ha rappresentato uno slogan ben riuscito per riempire un vuoto politico. Al contrario, si è rivelata una diagnosi corretta, che ha compreso la necessità di abbinare un'innovazione in senso centrista della sinistra a un'agenda politica chiara. I valori classici della sinistra politica - solidarietà, riduzione dell'ineguaglianza, protezione dei più deboli - garantiti da un attivo ruolo dello Stato sono rimasti intatti, ma le politiche concepite e implementate negli ultimi tredici anni per raggiungere i suddetti obbiettivi sono mutate radicalmente a causa dei profondi cambiamenti sociali in atto. Cambiamenti che hanno incluso l'intensificarsi della globalizzazione, lo sviluppo dell'economia post-industriale e dei servizi e, nell'Età dell'informazione, l'affermazione di una cittadinanza più volubile e combattiva, meno deferente verso l'autorità rispetto al passato (un processo accelerato dall'avvento di internet).
La maggior parte delle scelte politiche del Labour si sono adeguate al modificarsi delle condizioni sociali appena descritto. Alla fine degli anni novanta, mentre Tony Blair entrava a Downing Street, il tempo della gestione keynesiana della domanda e del dirigismo statale volgeva al termine. Si sentiva la necessità di stabilire una differente partnership tra governo e business, che riconoscesse il ruolo dell'impresa nella creazione della ricchezza e i limiti del potere statale. Nessun paese, per quanto potente, poteva controllare i mercati: da qui il lancio della cosiddetta offensiva del "prawn cocktail" (letteralmente, "del cocktail di gamberetti") per accattivarsi i favori della City. L'avvento di un'economia basata sulla conoscenza e il declino della classe operaia, un tempo bastione del laburismo britannico, indussero il partito a rivolgersi a una più ampia fetta di elettorato, compresi coloro che mai in precedenza si sarebbero sognati di votarlo. Il Labour, che non poteva più essere un partito di classe, trovò in Blair il leader naturale per iniziare la propria evoluzione.
Durante gli anni di governo le politiche laburiste si sono modificate costantemente, anche se alcune tendenze di fondo si sono mantenute. La prosperità economica, a fronte dell'instabilità tipica del mercato globalizzato, ha avuto in questi anni la priorità assoluta in quanto precondizione di politiche sociali efficienti. Una economia sempre più robusta avrebbe generato le risorse per gli investimenti pubblici senza il bisogno di ricorrere all'aumento della pressione fiscale. Il Labour ha perciò tentato di rompere con la sua passata predilezione per il binomio tassazione- spesa pubblica. "Prudenza" è stato il motto di Gordon Brown, a lungo Cancelliere dello Scacchiere e deus ex machina della politica economica. Un prudente management economico per accantonare le risorse necessarie ad accrescere sia i livelli di giustizia sociale che la spesa per il welfare. In ciascuna di queste aree il Labour ha dovuto lottare contro gli effetti del disastroso lascito degli anni di Margaret Thatcher. Negli anni ottanta l'ineguaglianza era cresciuta in Gran Bretagna a ritmi sconosciuti a qualsiasi paese occidentale, fatta salva la Nuova Zelanda (anch'essa condizionata pesantemente dal thatcherismo).
Quando il New Labour prese il potere il welfare britannico era ormai logoro e affamato di investimenti. E così, gli investimenti nel servizio pubblico e le riforme per renderlo più flessibile hanno permesso la creazione di posti di lavoro nel settore, diventato più attento e ricettivo rispetto alle esigenze degli utenti. Il Labour ha compreso di non dover essere il partito del "Big State", ma il partito dello Stato intelligente, in grado di interagire creativamente non solo con il mercato ma anche con la società civile.
Un altro importante aspetto caratterizzante la politica del New Labour è stato il seguente: non permettere che esistessero questioni politiche lasciate alla completa disponibilità della destra e cercare comunque di dare delle risposte di centro-sinistra anche a quelle. Una posizione non semplice da sostenere e infatti oggetto di aspre critiche, soprattutto sul fronte delle libertà civili, ma che si è rivelata fondamentale per garantire la longevità ai governi laburisti. Forze socialdemocratiche e riformiste hanno perso precocemente il potere in altri paesi europei proprio per la loro incapacità nell'affrontare questo nodo. Infatti, la sinistra ha spesso cercato di eludere, piuttosto che affrontare, tematiche scomode, legate al crimine, al disordine sociale, all'immigrazione e all'identità culturale, sottovalutando le preoccupazioni dei cittadini. Si è sostenuto, per esempio, che la gran parte delle forme di criminalità derivino dalla disuguaglianza: logicamente, una volta ridotti gli squilibri sociali, gli atti criminali avrebbero dovuto seguire il medesimo trend. Senza negare una simile relazione, il New Labour ha rotto con il passato e ha proposto qualcosa di diverso rispetto al mantra classico della sinistra. La formula di Blair "duri con il crimine, duri con le cause del crimine" non ha rappresentato solamente uno slogan, ma ha delineato concretamente un principio politico.
Come collegare tutto ciò a un altro elemento cardine del pensiero neo-laburista, ossia l'attivismo in politica estera? L'intensificarsi del processo di globalizzazione ha fatto sì che gli ambiti domestici e internazionali si siano interconnessi sempre più. Per esempio, i crescenti livelli di immigrazione hanno acuito le divisioni tra ricchi e poveri nella società globale. La Gran Bretagna, come gli altri grandi paesi occidentali, non è sottoposta a minacce incombenti alla propria sovranità, ma ha tuttavia il dovere di svolgere un ruolo attivo nella politica internazionale. L'interventismo diventa così una dottrina necessaria quando la sovranità nazionale perde gran parte del suo significato (come sta avvenendo) e quando esistono preoccupazioni umanitarie universalmente condivise che oltrepassano gli interessi locali. Il terrorismo transnazionale, una creatura della globalizzazione, appare in quest'ottica una minaccia di gran lunga superiore alle forme locali di terrorismo prevalenti in passato.
Quanto è stata efficace nel complesso l'azione politica sviluppata negli ultimi tredici anni? I risultati non sono forse stati sempre eccezionali, ma è difficile negare che il segno lasciato dal New Labour sulla società britannica sia stato profondo e duraturo. Ben più profondo del lascito dei governi di centro-sinistra che hanno calcato la scena europea e americana a partire dalla seconda metà degli anni novanta.
In breve, ecco quanto è stato realizzato. La Gran Bretagna ha vissuto un decennio di ininterrotta crescita economica, che non può essere semplicisticamente liquidata come conseguenza di una gigantesca bolla immobiliare. Una crescita che ha avuto luogo in concomitanza con l'introduzione del salario minimo garantito nazionale. Investimenti su larga scala sono stati operati nel servizio pubblico, mentre venivano messe in atto riforme significative, sebbene non compiute, nel settore della sanità e dell'istruzione. L'ineguaglianza è stata contenuta, per quanto non ridotta in maniera sensibile. La condizione dei poveri è comunque migliorata sostanzialmente. L'obiettivo di ridurre l'indigenza infantile non è stato raggiunto, ma prima della recessione 600.000 bambini sono stati sollevati dalla condizione di povertà relativa in cui si trovavano: a livello assoluto, la cifra deve considerarsi raddoppiata. Le iniziative governative di politica sociale (il New Deal e la Sure Start - pensata come sostegno economico all'infanzia) e di credito fiscale, pur incontrando diverse difficoltà, hanno dato i loro frutti. I derisi "PFI deals", innovative modalità di finanziamento pubblico-privato introdotte dal Labour, hanno riportato buoni risultati quando attivati con misura e attenzione. La devoluzione dei poteri alla Scozia e al Galles si è rivelata un successo. La legislazione che ha permesso ai cittadini di eleggere direttamente i sindaci ha portato vantaggi ai centri urbani maggiori, Londra in testa. In Irlanda del Nord è stata raggiunta la pace. I tassi di criminalità sono scesi nel complesso, mentre la Gran Bretagna ha affrontato la sfida dell'integrazione e del multiculturalismo con una disinvoltura sconosciuta all'Europa continentale.
E' poi interessante notare che il New Labour, accusato dai detrattori per i suoi metodi illiberali e autoritari, si sia spesso mosso in direzione opposta. Il governo a guida laburista ha aderito al Capitolo Sociale dell'Unione Europea, ha sottoscritto la Convenzione Europea sui Diritti Umani, ha introdotto il Freedom of Information Act e sostenuto le unioni civili per le coppie gay. La Gran Bretagna è oggi una società liberale e tollerante e le politiche laburiste hanno contribuito a tutto ciò. A livello internazionale, l'aiuto allo sviluppo ha raggiunto vette mai toccate ai tempi dell'egemonia dei governi conservatori. Gli interventi militari in Bosnia, Kosovo - dove Blair giocò un ruolo chiave nel persuadere gli americani a schierare truppe di terra - e Sierra Leone vengono unanimemente considerati dei successi. Se solo ci si fosse fermati! Niente ha corroso la reputazione di Blair come la scelta di ergersi a partner principale di George W. Bush nell'invasione dell'Iraq, un'operazione giustificata in base a un presupposto falso, ossia l'esistenza di armi di distruzioni di massa nell'arsenale di Saddam Hussein.
Non si è trattato dell'unico grave errore. Lo sperimentalismo mediatico dei primi anni di governo si è rivelato controproducente: dare troppo spazio a spin doctor e consulenti per la comunicazione ha dato l'impressione che il Labour fosse più rappresentazione che sostanza. Blair non ha avuto inoltre successo nell'integrare più strettamente la Gran Bretagna all'Europa e alcune sue relazioni politiche e personali (ad esempio, con Silvio Berlusconi) sono state considerate quantomeno controverse. E' stato corretto riorientare il Labour in senso business-friendly e riconoscere l'importanza della City. Tuttavia, si è sbagliato nel permettere che l'offensiva del "prawn cocktail" degenerasse in compiacenza, trasformando Londra in qualcosa di simile a un gigantesco paradiso fiscale. L'idea che il Labour "dovesse essere più rilassato con le persone che si stavano arricchendo" ha finito non solo con il favorire l'accumulazione ai più alti livelli, ma anche con il creare una pericolosa cultura dell'irresponsabilità. Così, molti super-manager devono aver pensato di proteggere se stessi dai rischi, scaricandoli sui loro dipendenti. Non accetto comunque l'idea semplicistica che il New Labour sia stata la continuazione del thatcherismo e che Blair e Brown abbiano raccolto l'eredità della Lady di Ferro. Non dimentichiamoci che le politiche laburiste hanno implicato un ampio intervento governativo nella vita economica, sebbene soprattutto dal lato dell'offerta. E' sempre stato presente in questi tredici anni un genuino impegno a contenere le crescenti ingiustizie sociali, una nozione aliena alla Thatcher al suo ministro Keith Joseph e al loro guru, Milton Friedman. Quel che è certo è che i leader del partito avrebbero dovuto distinguere con più chiarezza la differenza tra riconoscere le virtù del mercato e prostrarsi al suo cospetto. I laburisti avrebbero dovuto criticare con più nettezza i limiti del fondamentalismo neo-liberista. Allo stesso modo, la chiarezza è mancata quando si è trattato di discutere di riforme costituzionali, una su tutte la proposta di introduzione del sistema di voto proporzionale. In questi casi il tatticismo spiccio è stato anteposto alle posizioni di principio.
Errori che, ripeto, non cancellano la profonda traccia lasciata dal New Labour nella vita politica e sociale. Gli altri partiti hanno dovuto accodarsi e modellare i propri programmi sull'agenda laburista. Oggi i Tory sostengono i diritti degli omosessuali, considerano necessario ridurre la povertà, sostengono i Climate Change and Energy Acts introdotti dai precedenti governi, ed è presumibile che continuino le riforme economiche laburiste. Ormai anche i conservatori non si riconoscono nella famosa massima della Thatcher secondo cui "la società non esiste". Insistendo sul tema della "Big Society", i conservatori attingono dalla stessa tradizione comunitaria che ha ispirato Blair. Può darsi che una volta al governo essi disattendano la loro virata ideologica, ma al momento il loro cambiamento sembra genuino.
La crisi economica sembra aver spazzato via il mondo che ha visto maturare l'evoluzione neo-laburista. Improvvisamente, tutto si è ribaltato: il keynesismo da cui il Labour si era appena liberato è tornato in voga; di nuovo sembra possibile intervenire per regolare i mercati finanziari (che sino a ieri parevano onnipotenti); l'agenda politica interna è ora dominata dalla necessità di operare severi tagli alla spesa pubblica, l'opposto dei grandi investimenti sociali che avevano accompagnato l'ascesa di Blair e compagni; la prudenza fiscale ha ceduto il passo ai prestiti massici e all'accumulazione del debito; la tassazione delle transazioni finanziarie, in precedenza ritenuta irrealistica, è un'opzione tornata sul tavolo; è possibile, dopo tutto, far pagare più tasse ai ricchi; vi sono persino discussioni sull'opportunità di fare un passo indietro, di rilanciare le politiche industriali puntando sulla manifattura; il riscaldamento globale e i rischi ambientali, importanti per il Labour solo negli ultimi anni del suo mandato, sono ormai in cima ai pensieri dei decisori politici; la pianificazione economica, per anni nel dimenticatoio, è di nuovo tema di confronto.
Il New Labour come tale è morto, ed è sicuramente tempo di abbandonare la definizione stessa. Peraltro, sono ancora ben presenti alcuni dei trend socio-economici che hanno permesso la sua nascita e in merito ai quali esso ha fornito delle risposte. Motivo per cui il partito potrà recuperare un ruolo centrale in futuro, a patto che riacquisti la capacità di attrarre l'elettorato di centro e benestante, in un contesto nuovo caratterizzato dai media elettronici e dal peso di internet.
Dopo i recenti guasti, può avere un senso ridurre la preminenza del settore finanziario e incoraggiare la rinascita del manifatturiero, soprattutto nel caso un suo rinnovamento possa ridurre le emissioni inquinanti e migliorare la sicurezza energetica. Senza scordarsi tuttavia che la Gran Bretagna continuerà a essere un'economia post-industriale, basata sui servizi e sulla conoscenza e dove le riforme del welfare saranno condizionate da limiti di spesa cogenti. Resterà il problema di portate avanti politiche progressiste in un ambiente caratterizzato dalla sfida dell'immigrazione e del multiculturalismo, senza perdere consenso nella fascia della popolazione che vive con ansia e urgenza il timore per la criminalità. Collegato a ciò, il delicato equilibrio tra tutela delle libertà civili e difesa dai rischi posti dal terrorismo internazionale. Keynes, come detto, è tornato di moda, ma non vi sarà una ripresa integrale delle sue politiche di stimolo alla domanda, non torneremo indietro di decenni. La sfida davanti a noi è preservare, e sviluppare, la flessibilità e la creatività del mercato, declinandole in termini compatibili nel lungo periodo con le esigenze socialmente avvertite.
Un ripensamento generale è irrinunciabile, così come un nuovo pacchetto di politiche. Il problema principale per il Labour all'opposizione sarà come minimizzare le divisioni interne che affliggono molti partiti, specialmente a sinistra, in seguito a una sconfitta elettorale. La ricostruzione ideologica sarà fondamentale. Innanzitutto, bisognerà ridefinire il ruolo della sfera pubblica. I blairiani, si dice, tendono più verso il mercato rispetto ai browniani, che guardano tradizionalmente allo Stato. Ad ogni modo, la sfera pubblica è distinguibile sia dal mercato che dallo Stato e può essere utilizzata come piattaforma per ricostruire entrambi. Il Labour è sembrato avvicinarsi a questa prospettiva dopo la crisi finanziaria, quando ha rispolverato la vecchia idea del mutualismo. Questo primo timido tentativo dovrebbe essere coltivato e applicato allo sforzo di costruire una forma di capitalismo responsabile e associato a un approccio sofisticato al tema della sostenibilità.
Anthony Giddens, laburista, è l'ex direttore della London School of Economics
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