Joshua Kurlantzick, Prospect, 26 maggio 2010,Per anni gli analisti politici hanno considerato la crescita della classe media come la chiave di una democratizzazione di successo. Tuttavia, negli ultimi dieci anni, la classe media dei Paesi in via di sviluppo ha iniziato a mettere in dubbio tale affermazione. Dalla Thailandia alla Russia e all'Ucraina fino a Venezuela, Honduras e Filippine, nel momento in cui le giovani democrazie si trovano ad affrontare nuove minacce, le loro classi medie interrompono il percorso di democratizzazione. Le cause di questa dinamica regressiva sono molteplici: dai leader eletti che violano il dominio della legge, alla corruzione sino alle controversie legate alla distribuzione della ricchezza. Come hanno dimostrato i recenti eventi in Thailandia, se le classi medie e quelle povere si dividono sulla questione dei diritti democratici, lo stesso sistema politico crolla. Queste spinte regressive possono scatenare conflitti, soprattutto tra la classe media e quella meno abbiente.
Il politologo Samuel Huntington è stato uno degli studiosi che hanno collegato classe sociale e democrazia. Ha sostenuto, infatti, che la crescita economica nei Paesi in via di sviluppo rafforza la classe media che, diventando più ricca e istruita, rivendica diritti sociali, politici ed economici con lo scopo primario di tutelare le proprie conquiste. Allo stesso tempo, se la classe media cresce, i regimi diventano maggiormente dipendenti dalla classe imprenditoriale, che è in grado di determinare la crescita economica. Così, i leader autoritari sono costretti ad ascoltare le richieste di quel settore della società. Una tale influenza porta all'apertura dei sistemi politici, con il riconoscimento dei diritti di proprietà e dei diritti politici.
Per decenni la Storia ha confermato questa tesi, a partire dall'Europa meridionale dopo la seconda guerra mondiale e, in seguito, con lo sviluppo che ha coinvolto l'Asia all'inizio degli anni Novanta. Quello che accadde fu che le nazioni svilupparono le loro economie, le classi medie fiorirono e le fasce cittadine e istruite iniziarono a chiedere diritti. Dopo il 1990, il numero delle democrazie crebbe in maniera consistente: l'Europa centrale, quella dell'Est, molta parte dell'Africa e numerose nazioni dell'Asia divennero democratiche. Nel 2005, per la prima volta, oltre la metà della popolazione mondiale viveva in un regime democratico. In alcuni casi questo è accaduto perché la classe media è scesa in strada per rovesciare gli autocrati, come nel caso delle proteste contro il governo militare avvenute nel cosiddetto "Maggio Nero" del 1992 in Thailandia. In altri casi, come a Taiwan e in Cile, la crescita economica e le pressioni della classe media condussero a un progressivo cambiamento politico e, in ultima istanza, dopo la caduta di un governo dittatoriale di lunga data, alla democrazia.
Finora ci è andata bene. Accadimenti analoghi si sono verificati nelle Filippine, dove una costituzione liberale fu approvata dopo la rivoluzione del 1996. "Era grande la speranza che una volta cacciato il dittatore Ferdinand Marcos, sarebbe nato un Paese diverso - mi disse l'attivista per i diritti umani, Harry Roque - si raggiunse un picco". Poi, come ogni rivoluzione, la realtà ha preso piede e tutto si è normalizzato.
Il caso thailandeseAprile è il mese più caldo dell'anno in Thailandia e di solito tutte le attività tendono a fermarsi. Con temperature che vanno assai oltre i 100 Fahrenhiet (circa 35 gradi), molti residenti di Bangkok lasciano la città; successivamente l'intero Paese "chiude la saracinesca" per un'intera settimana per il Capodanno thailandese. Lo scorso aprile, invece, decine di migliaia di dimostranti anti-governativi hanno raggiunto la città, la maggior parte dalle aree rurali del Nord e del Nordest. Alla luce dei tentativi dell'élite urbana e militare di assumere il controllo della politica thailandese, manovre percepite come una minaccia alla democrazia, i rivoltosi chiedevano nuove elezioni e le dimissioni del Primo ministro Abhisit Vejjajiva. Le cosiddette "camicie rosse" hanno così assediato il distretto finanziario del centro città, creando una sorta di accampamento militare. Violenti scontri con le forze di sicurezza hanno causato numerosi morti e un numero indefinito di feriti.
Una tale violenza sta diventando sempre più frequente in un Paese una volta considerato una delle nazioni più stabili del Sudest asiatico. La crisi attuale iniziò nel 2006, quando un'altra ondata di proteste di piazza - all'epoca guidate da avvocati, dottori e piccoli imprenditori - investì Bangkok. Le rivolte, alle quali parteciparono migliaia di cittadini appartenenti alla classe media, chiedevano la sostituzione dell'allora primo ministro, Thaksin Shinawatra, un carismatico leader populista sostenuto dalle fasce povere della popolazione, soprattutto delle campagne. Dopo mesi di sommosse, venne agitato pubblicamente lo spettro di un intervento militare per "salvare" la democrazia thailandese. I rivoltosi ebbero ciò che auspicavano. Nel settembre del 2006, le forze armate presero il controllo del governo.
Tutte queste crisi affondano le loro radici nelle incertezze causate dalla globalizzazione. Sotto l'onda d'urto della crisi finanziaria asiatica del 1997 l'umore nazionale thailandese mutò drasticamente, allontanandosi dall'atmosfera riformista che aveva caratterizzato i primi anni Novanta. La classe media thailandese iniziò a limitare le proprie pretese all'arricchimento e al risparmio piuttosto che perseguire il cambiamento politico. Lo stesso avvenne nelle Filippine, dove, dopo anni di instabilità politica che produssero conflitti interni senza fine, molti cittadini abbandonarono ogni interesse per la politica. In Russia gli anni di instabilità economica post-Guerra Fredda aizzarono gli animi e resero possibili i sommovimenti politici che caratterizzarono l'epoca di Boris Eltsin. Quando Eltsin lasciò la scena politica, molti russi iniziarono, tuttavia, a disaffezionarsi alla politica, pensando di poterla semplicemente ignorare. "Il loro interesse divenne esclusivamente quello di consolidare le loro ricchezze e il loro status sociale", spiega Dmitri Trenin, un esperto politico russo del Carnegie Endowment for International Peace a Mosca.
Le radici della delusioneIl sentimento di delusione della classe media sembra essere oggi dilagante. L'organizzazione di ricerca Afrobarometer ha condotto un sondaggio in 18 Stati subsahariani. Esso ha rilevato che, nel 2007, solo il 45% degli interpellati ha affermato di essere soddisfatto della democrazia, il 60% in meno di coloro che risposero alla stessa domanda nel 2001. Secondo la Freedom House, un'organizzazione non governativa internazionale, la libertà globale è diminuita nel 2009 per il quarto anno consecutivo. La Freedom House ha osservato che questo declino rappresenta il più lungo periodo di regressione continuata della democrazia negli ultimi 40 anni. Perché, allora, la teoria della democratizzazione attraverso la classe media si sta rivelando lacunosa?
Una spiegazione è che la prima generazione di leader democratici si è trasformata in un mucchio di autocrati eletti. Essi vedono la democrazia come un processo in cui la vittoria elettorale fornisce un mandato in grado di neutralizzare ogni opposizione - il che fomenta la rabbia della classe media. Forse il caso più famoso è quello di Vladimir Putin che, forte di un consenso elevato mentre era alla presidenza della Russia all'inizio del 2000, ridimensionò l'influenza dei governatori regionali, esautorò i poteri dei parlamenti nazionali e mise il bavaglio ai media più influenti. Sebbene il suo successore Dmitri Medvedev abbia rilasciato dichiarazioni in cui ha auspicato maggiori libertà, la maggior parte degli analisti politici russi ritiene che il suo impegno verso la democrazia non sia più sincero di quello di Putin. O forse è ancor peggiore: Medvedev ha prospettato, infatti, modifiche costituzionali che potrebbero permettere a Putin, oggi primo ministro, di tornare alla presidenza nel 2012.
Il leader venezuelano Hugo Chavez sembra mettere in atto tattiche simili, usando il potere per eliminare i suoi alleati e minare i controlli sulla sua presidenza, ad esempio, revocando le licenze dei network televisivi privati più eminenti e quelle di dozzine di stazioni radio. Lo scorso dicembre, inoltre, ha fatto incarcerare un giudice che aveva emesso una sentenza a lui sgradita. Ha fatto piazza pulita di avversari nelle compagnie petrolifere nazionali, in passato efficienti, affidando poltrone ai suoi fidati e ha criminalizzato ogni voce critica accusando chiunque osasse esprimere dissenso di diffondere informazioni "false" volte a danneggiare "gli interessi dello Stato".
In Thailandia, la guerra contro la droga condotta dall'ex primo ministro Thaksin potrebbe essere stata concepita per coprire una strategia di rimozione di ogni opposizione: migliaia di persone, da oppositori politici a veri trafficanti di droga, sono stati uccisi. Thaksin ha inoltre utilizzato minacce e processi per intimidire i giuristi dell'opposizione e mettere il bavaglio alla stampa. Allo stesso modo in Nicaragua, dopo il suo rientro al potere nel 2007, Daniel Ortega ha adottato discutibili leggi per impedire ogni opposizione.
Istituzioni deboliSarebbe forse stato possibile frenare questi autocrati eletti, se non fosse stato per un secondo problema: le deboli istituzioni democratiche di questi Paesi. In Russia quasi tutti i gruppi di opposizione hanno dovuto soccombere a Putin. Nell'autunno del 2008 l'Union of Right Forces, l'ultimo vero partito politico indipendente russo, si è fuso con altri movimenti politici favorevoli al Cremlino. Gli sparuti oppositori rimanenti, come il campione di scacchi Garry Kasparov, godono di uno scarso sostegno popolare. In Cambogia - una nazione segnata da una incapacità cronica di costruire istituzioni in grado di gestire la sua fragile democrazia - il Primo ministro Hun Sen scatenò una campagna di intimidazione che incluse l'assassinio degli oppositori politici. Democrazie così deboli hanno sviluppato un problema meno visibile ma altrettanto dannoso: la corruzione. Quando il potere è gestito da una governo autoritario la corruzione è un fenomeno prevedibile: il regime sottrae quantità di denaro per scopi personali ma il fenomeno è piuttosto contenuto. Le giovani democrazie spesso assistono invece alla dissoluzione dei vecchi canali di corruzione che sono sostituiti da sistemi più complessi attraverso i quali molteplici attori - come autorità politiche locali e burocrati - "allungano le mani" sui beni pubblici. Questo tipo di corruzione discredita rapidamente la democrazia agli occhi di quei cittadini che una volta guardavano a essa con speranza.
Diritti acquisitiLa crisi finanziaria globale ha indotto molti, nei Paesi in via di sviluppo, a domandarsi se il capitalismo abbia fallito e quanta parte di questo fallimento sia da attribuire alla democrazia. Tuttavia, esiste una potente spinta anti-democratica che scaturisce dalla presa di coscienza della classe media che un reale consolidamento della democrazia può essere scomodo ai suoi interessi. In Bolivia gruppi di dimostranti appartenenti alla classe media hanno lanciato una campagna anti-governativa nel 2008 contro il presidente Evo Morales, un ex capofila dell'Unione populista. I contestatori provenivano prevalentemente dall'Est ricco del Paese, dove la classe imprenditoriale era preoccupata dai piani di Morales volti a nazionalizzare le ricchezze petrolifere e minerarie, a cacciare le compagnie straniere dalla Bolivia e a aumentare le tasse per promuovere lo stato sociale. I dimostranti inscenarono ben presto rivolte più gravi di quanto Morales avesse previsto, in particolare nell'agosto del 2008, quando bloccarono le principali strade e attaccarono la polizia.
Dopo essersi ribellati ai propri leader eletti, i rivoltosi della classe media solitamente iniziano a impiegare mezzi anti-democratici per scalzare i propri presidenti, allo scopo di costruire una forma più elitaria di democrazia, all'interno della quale possano garantirsi maggiore influenza. Questa tesi si è rivelata veritiera in Thailandia e nelle Filippine, dove le élites urbane di Manila sembra non riescano a fare a meno di protestare. Nel 2001 si sono riversate nelle strade per rovesciare Joseph Estrada, un ex attore salito al potere grazie al suoi metodi "machisti" che hanno avuto presa sul sottoproletariato (prima però che utilizzasse, secondo i sui accusatori, la sua posizione di potere per rastrellare ingenti quantità di denaro dalle scommesse illegali). Dimostranti filippini si riunirono nelle piazze anche successivamente in un tentativo, poi fallito, di cacciare Gloria Macapagal Arroyo, accusata di sovvertire la democrazia e tollerare la corruzione di massa.
Accadimenti simili si sono svolti anche nel corso del drammatico colpo di stato in Honduras del 2009, dove, attraverso pressioni, il presidente Manuel Zelaya ha modificato la costituzione per prolungare il suo mandato istituzionale ed è stato accusato di brogli referendari. Ha avviato, inoltre, politiche economiche populiste, tra le quali un drastico aumento del salario minimo, che hanno mandato su tutte le furie gli imprenditori. Mentre si avvicinava il giorno delle elezioni, gli oppositori di Zelaya, appartenenti alla classe media, e i loro alleati al Congresso dell'Honduras, iniziarono a inscenare proteste. Nel giugno del 2009 intervennero i militari che obbligarono Zelaya all'esilio. Nelle elezioni successive a vincere le elezioni fu il Partito nazionale conservatore, sostenuto dalla classe media.
La grande spaccaturaIn realtà, volendo essere precisi, la classe media non si è interamente rivoltata contro la democrazia. In Iran le fasce cittadine hanno guidato proteste contro i metodi sempre più dittatoriali messi in atto dal regime di Mahmoud Ahmadinejad. In Birmania, un Paese che soffre violazioni dei diritti civili tra le peggiori al mondo, studenti provenienti dalla classe media continuano a chiedere la democrazia. Un chiaro sentimento di delusione ha invece preso piede in democrazie consolidate come India e Cile - dove la classe media è diventata più cinica nei confronti della politica. Ciononostante, la democrazia ha affondato le proprie radici a una tale profondità in questi Paesi che è quasi impossibile sradicarla. Una tale delusione si riflette spesso in una bassa affluenza alle urne. In Cile, dove il voto è obbligatorio, nel dicembre 2009, durante le elezioni presidenziali, milioni di persone non si sono neppure registrate al voto sfidando le possibili sanzioni. Anche in Ucraina la classe media ha sviluppato una delusione cronica verso la corruzione e i fallimenti dei propri politici.
Una volta che si compie questo processo all'interno della classe media, esistono ben poche soluzioni. In passato uomini dal pugno di ferro come l'ex presidente del Cile Augusto Pinochet potevano far piazza pulita della democrazia con il pretesto della crescita economica. Soluzioni di tal fatta funzionano poco ai giorni nostri. Oggi i militari possono prendere il potere ma, solitamente, si dimostrano incapaci di governare. Un tempo i generali potevano affidare il governo a un pugno di capaci tecnocrati, ma oggi la maggior parte delle economie in via di sviluppo sono legate ai mercati globali e richiedono competenze più avanzate per mantenere la fiducia degli investitori. Una tale logica si è dimostrata concreta in Paesi come la Thailandia e le isole Fiji, dove i militari hanno assunto il potere in un colpo di stato nel 2006, per poi assistere al declino economico e vedere il Paese sprofondare nelle sommosse sociali.
Un ritorno all'autoritarismo “soft” – un primo ministro scelto dalle élites – è altrettanto problematico. E' infatti improbabile che cittadini che credono nella democrazia accettino un regime oligarchico. Dal canto loro, le classi povere darebbero vita a proteste per contrastare quelle inscenate dalla classe media. Tali proteste porterebbero a divisioni permanenti: se un tempo la classe media e quella povera combattevano insieme per democrazia, un moto regressivo sta creando tra i due gruppi distanze abissali che portano verso lo scontro.
A livello globale queste nuove tendenze anti-democratiche non minacciano le riforme politiche raggiunte. Tuttavia confondono i gruppi che in Occidente sostengono la democrazia. Molti di questi gruppi, infatti, iniziano a dubitare che la classe media possa realmente incoraggiare la diffusione della libertà.
Se l'Occidente vuole invertire la tendenza recente, necessita di una nuova strategia. Da un lato, deve fermare il tacito sostegno ai colpi di Stato, che aumentano soltanto le divisioni sociali e creano precedenti utili soltanto a rovesciare i governi eletti. Washington non sembra cogliere questo messaggio. Nel corso del colpo di stato del 2002 in Venezuela la Casa Bianca ha tacitamente chiuso un occhio sul "putsch". Dopo il colpo di Stato del 2009 in Honduras il presidente Obama ha parlato forte e chiaro contro gli interventi militari volti alla presa del potere. Sebbene gli Stati Uniti abbiano "condonato" il colpo di Stato in Thailandia, questa volta i rappresentanti del governo statunitense hanno evitato di incontrare sia personalità dell'élite di Bangkok, sia seguaci delle cosiddette "camice rosse". Obama, inoltre, ha fatto sapere al governo thailandese che non avrebbe sostenuto un altro intervento militare.
I gruppi a favore della democrazia, sia dentro che fuori le nazioni in via di sviluppo, devono inoltre abbandonare l'assunto che la semplice crescita e politicizzazione della classe media garantisca di per sé la democratizzazione. Dovrebbero invece focalizzarsi sulla creazione di un tipo di classe media che sia incline a condividere le esigenze delle classi povere, che hanno altrettanto diritto di rappresentanza e potere politico.
I leader eletti in maggioranza dalle fasce meno abbienti dovranno rispettare il dominio della legge, o rischieranno di alienarsi l'appoggio della classe media e delle élites che controllano l'imprenditoria, oltre a quello di militari e di altri "segmenti" critici della società. In alcuni Paesi questo processo è già iniziato. In Brasile, Luiz Ignazio da Silva è stato eletto nel 2002 grazie alla sua vasta popolarità tra le classi indigenti. Il presidente ha tuttavia ben presto mutato il suo atteggiamento populista ed eccessivamente di sinistra per ottenere il consenso della classe media del Paese. In questo modo Lula ha riportato notevoli successi sul versante della crescita economica del Brasile ed è stato in grado di attuare politiche contro la povertà che si sono rivelate efficaci.
Anche la definizione occidentale di "democratizzazione" deve andare oltre il mero svolgersi di libere elezioni per includere il rispetto dei diritti e la creazione di istituzioni liberali. Nel suo ultimo libro, "Guerre, armi e voti", pubblicato 2009, Paul Collier osserva che l'equazione "elezioni uguale democrazia", se si pensa a quanto è avvenuto in Stati poveri dell'Africa, può portare a terribili conflitti etnici, poiché le elezioni, se non vanno di pari passo con la creazione di altre istituzioni democratiche, diventano solo un'altra arena per scontri tribali. Lo stesso problema è evidente anche fuori dall'Africa, dove autocrati neoeletti si sentono liberi di calpestare i diritti delle minoranze una volta vinte le elezioni.
Le nazioni in via si sviluppo potrebbero pensare di creare, in seno alle istituzioni, un tipo di rappresentazione proporzionale, che possa proteggere i diritti delle minoranze e incoraggiare le coalizioni che mettano insieme le fasce povere con la classe media. Gli aiuti dei Paesi stranieri dovrebbero essere investiti nella promozione del costituzionalismo - lo sviluppo di istituzioni che rafforzino la sovranità della legge - e allo stesso tempo sostenere e monitorare le elezioni. I Paesi esteri potrebbero promuovere il costituzionalismo anche attraverso finanziamenti volti a incentivare tirocini per giuristi, e potrebbero impiegare fondi nella formazione di rappresentati governativi e politici, oltre che nel sostegno di attivisti dei diritti civili e altri gruppi che possano essere coinvolti nella stesura di costituzioni più democratiche e nella diffusione di valori costituzionali.
Se le democrazie mature e i Paesi in via di sviluppo non faranno nuovi investimenti a favore della classe media, le conseguenze potrebbero essere nefaste. La Thailandia oggi deve fare i conti con una costante spaccatura tra la classe media e le élites da una parte e le fasce meno abbienti dall'altra. Quando il prossimo autunno il Paese andrà alle urne, uscirà probabilmente vincitore un partito vicino alle fasce indigenti, che rappresentano la maggioranza della popolazione. E' improbabile che la classe media e le élites cedano facilmente il potere, è invece plausibile che diano il via a un'ennesima ondata di violenza che potrebbe portare a un altro colpo militare. "Il Paese è
paralizzato dalla paura", mi ha detto un rappresentante del governo thailandese, scuotendo la testa. "Qualsiasi opzione pare sbagliata". Purtroppo, dalla Cambogia al Venezuela, molte nazioni in via di sviluppo si trovano in situazioni simili. (Traduzione a cura di Francesca Morandi)
Joshua Kurlantzick è un studioso degli affari regionali del Sud-est asiatico, fellow presso il Council on Foreign Relations