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TERRORISMO, PREVENZIONE E GESTIONE DELLE CRISI

Intervista a Marco Lombardi: “Professionalità e ricerca per fronteggiare i rischi. Sempre più importante il ruolo dei cittadini”

Data: 2010-06-16

Professor Lombardi, innanzitutto credo possa essere interessante abbozzare una descrizione delle attività del programma ITSTIME e dei suoi obiettivi.

ITSTIME è un acronimo che sta per Italian Team for Security, Terroristic Issues & Managing Emergencies. Direi che di per sé è un programma l'acronimo stesso. Da un punto di vista istituzionale, si tratta di un centro di ricerca del Dipartimento di Sociologia dell'Università Cattolica di Milano, che io coordino. I colleghi che afferiscono a ITSTIME non sono necessariamente membri dell'Università Cattolica; abbiamo anche colleghi stranieri dall'Inghilterra alla Grecia e soprattutto teniamo molto a mantenere un approccio multidisciplinare e interdisciplinare. Collaboriamo quindi con sociologi, psicologi, politologi, esperti di nuove tecnologie e con altre professionalità.
L'acronimo è un programma in sé perché evidenzia il nostro occuparci di sicurezza in genere, in particolare di terrorismo, partendo dalla prevenzione, passando all'analisi  per arrivare al crisis management nella fase successiva a un attentato.
Le nostre origini, in particolare le mie, risalgono a ormai venticinque anni fa, nel 1985, quando cominciai a occuparmi di gestione delle emergenze. Quindi nasco come crisis manager e tuttora mi occupo di emergenze in senso ampio. Soltanto negli ultimi quindici anni allo studio delle emergenze naturali abbiamo affiancato quello dei disastri di natura antropica. In effetti, le logiche sono simili poiché al momento di gestire un'emergenza interessa poco che essa sia frutto di un incidente o di un'azione deliberata. Questa è la logica di ITSTIME che si articola pertanto in un gruppo di lavoro sul terrorismo, quindi analisi della minaccia e sviluppo di attività e di proposte relative al controterrorismo, e in un gruppo impegnato nel crisis management.
Negli ultimi anni si è diffusa la moda di occuparsi di terrorismo e di intelligence, spesso legata a una certa improvvisazione e superficialità. In Italia esistono alcuni luoghi d'eccellenza, sicuramente ITSTIME è uno di questi. Con l'Università La Sapienza ITSTIME fa parte di una rete accademica internazionale, l'ICTAT (International Counter-Terrorism Academic Community), che si occupa di terrorismo e che interessa una ventina di paesi. Siamo tra i fondatori dell'Osservatorio per la sicurezza nazionale che ha sede nel Centro Militare di Studi Strategici (CeMISS). Contemporaneamente, facciamo parte di altri centri di ricerca, di altre reti: collaboriamo con l'Unione Europea e siamo nel board di EEneT (European Expert Network on Terrorism Issues), un network che raccoglie buona parte dell'intelligence europea con la finalità di approfondire riservatamente alcuni temi che riguardano il terrorismo.
La nostra specificità deriva forse dal nostro forte legame con la Sociologia, una scienza empirica che richiede che si verifichi la teoria sul campo e che si torni dal campo alla teoria per migliorarla oppure per smentirla. Per dare un'idea, quest'anno siamo stati spessissimo in Afghanistan, negli ultimi anni abbiamo battuto l'Asia Centrale (dal Pakistan al Kashmir allo Sri Lanka al Tagikistan) e ancora precedentemente (e tuttora) l'Africa del nord. Siamo convinti che non si possano studiare a distanza coloro che vivono in un'altra cultura e in un altro contesto.
Voglio sottolineare una specificità del nostro gruppo, quella di studiare la comunicazione del terrorismo. La considerazione da cui siamo partiti è molto semplice. Due sono le dimensioni fondamentali che sostengono un'organizzazione complessa: le risorse economiche e quelle informative. Oggi la ricchezza sta nell'avere o tanti soldi o tante informazioni e si è ancora più ricchi se si dispone sia di soldi che di informazioni.
La nostra scelta è stata quella di approfondire le strategie di comunicazione, assumendo questa dimensione come fondamentale per capire le organizzazioni terroristiche. A differenza di un delinquente comune, al terrorista interessa manifestare al mondo le modalità di realizzazione del suo crimine e quindi attualizzare costantemente la minaccia, soprattutto in termini di paura. La ricompensa per un terrorista è soprattutto simbolica e quindi la dimensione comunicativa diventa prioritaria.
Credo che ITSTIME possieda il più grande archivio relativo alla comunicazione del terrorismo islamico. Abbiamo più di 60.000 file archiviati che monitorano ormai da decenni la comunicazione, in particolare via web, dei terroristi. E' un archivio che racconta tante cose, partendo dal presupposto che non si tratta più di una comunicazione naif come poteva essere solo dieci anni fa ma di una comunicazione mirata a raggiungere degli obiettivi. Studiarla permette di comprendere il target a cui si riferisce e la fonte che la sta producendo. Quando si studia la comunicazione, non ci si può limitare a farlo a tavolino ma è anche necessario andare sul campo per incontrare fisicamente le persone cui questa comunicazione si rivolge, anche solo per scambiare due chiacchiere al di fuori della comunicazione mediata.
E' un'attività affascinante, anche se complica di molto la vita. La relazione faccia a faccia è molto più complicata della relazione mediata ed è estremamente utile per superare luoghi comuni e stereotipi. E' un'attività che aiuta a comprendere come spesso la categoria di terrorista venga utilizzata e normata in modo improprio e come dietro l'apparenza si celino sfumature molto importanti che si scoprono solo andando sul campo. Ribadisco pertanto l'imprescindibilità di questa attività, per comprendere l'altro e, per tornare al tema della comunicazione, per  distinguere la realtà dalla rappresentazione. Infatti, fondare pratiche operative sulle rappresentazioni e non sui dati di fatto è sbagliato e pericoloso.

In questo momento voi state monitorando delle particolari aree critiche, state seguendo particolari filoni di analisi e indagine?

Il filone principale su cui si sta lavorando è quello del terrorismo jihadista. Questo è quello che facciamo normalmente sul web, anche in collaborazione con altre Università e altri colleghi europei, ed è ciò che ci porta a frequentare assiduamente l'Asia Centrale e il Nordafrica. I mutamenti comunicativi di questi ultimi dieci anni ci fanno leggere chiaramente l'evoluzione organizzativa del terrorismo di matrice islamica, a cominciare dal qaedismo. Dieci anni fa, noi di ITSTIME siamo stati tra i primi a definire al-Qaeda come un brand in franchising. Oggi l'organizzazione ha assunto propriamente questa dimensione immateriale. Negli anni ne abbiamo seguito l'evoluzione, analizzando le sue trasformazioni comunicative, in termini di target e di strumenti tecnologici adoperati. Abbiamo monitorato il linguaggio dei diversi portavoce della “Base” (dal sodalizio bin Laden/al-Zawahiri in giù)  e il registro utilizzato dalle varie emittenti mediatiche (la più nota è al-Jazeera) che sono state via via legittimate a comunicare come fonti del qaedismo.
 
Alla luce della vostra esperienza quanto è probabile che si possa verificare un nuovo attacco sul suolo europeo? Quali sono gli indicatori rispetto a un attentato paragonabile a quelli di Madrid  nel 2004 e di Londra nel 2005 (due eventi che hanno avuto un impatto così forte proprio sul piano comunicativo)? Negli ultimi tempi sembra quasi che la minaccia sia meno all'ordine del giorno, ma effettivamente sappiamo che da un momento all'altro potrebbe concretizzarsi. Voi che studiate in modo così attento il fenomeno avete una percezione di rischio?

Piacerebbe a tutti dare una risposta esatta a simili quesiti. Un attacco è sempre possibile, il problema sta nel valutarne il livello di probabilità data per scontata la possibilità. Secondo me, ogni previsione è ancora più complicata perché l'organizzazione di al-Qaeda è oggi strutturata in forma di messaggi centralizzati contro tattiche definite a livello locale. Questo è di fatto quello che ci lascia pensare la legittimazione di cui godono gruppi regionali come il Califfato del Caucaso, al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM) o nel Corno d'Africa e le loro agenzie di comunicazione. Vi è  quindi una probabilità elevata che individui e interessi occidentali siano target di iniziative definite a livello locale in aree quali il Nordafrica e l'Asia centrale.
In Europa, e sul suolo occidentale in genere, non esiste una simile organizzazione locale: la struttura cellulare del vecchio qaedismo si è un poco rilassata in termini di direzione tecnica delle operazioni ed è quindi possibile immaginare un attacco simile a Londra 2005; più difficile uno scenario da 11 settembre o che rimandi all'attentato alla stazione madrilena di Atocha nel 2004. In Europa esiste ormai una struttura qaedista operativamente più morbida che lancia messaggi per indicare quale sia il target da colpire ma lascia grande margine di manovra all'operatività locale. E' più facile ancora pensare a emulatori e imitatori come fu per Londra 2005, come fu per il fallito attentato contro l'aeroporto di Glasgow nel 2007 e come è stato recentemente alla caserma Santa Barbara di Milano.
Questo che cosa comporta? Comporta una possibilità sempre presente di un attentato e una difficile probabilità di valutazione. Implica un'ipotesi di attacco a soft target senza risultati catastrofici in termini di danni, ma con effetti pesanti in termini di minaccia sempre incombente sulla popolazione e di trauma collettivo. Sono sufficienti poche vittime per terrorismo al mese per destabilizzare un paese in maniera significativa e per produrre un simile effetto è sufficiente l'azione di uno squilibrato o di un pugno di individui.
Come vede, è veramente difficile definire i reali livelli di rischio. Motivo per cui si stanno elaborando una serie di indicatori da utilizzare sul territorio. E' necessario rendersi conto che il terrorismo – usiamo questa parola anche se è difficile capire esattamente che cosa significhi – ha acquisito ormai i contorni di una guerra asimmetrica permanente che supera tutti i confini geografici conosciuti per diventare una scomoda abitudine con la quale convivere. Per gestire la minaccia terroristica nei prossimi anni sarà sempre più richiesta una compartecipazione del cittadino piuttosto che una delega passiva ad altri per assicurare la sicurezza dell'ambiente in cui si vive.

Un punto interessante. Si riferisce al momento della gestione dell'emergenza o anche alla fase della prevenzione?

A entrambi. In termini di prevenzione significa semplicemente non disinteressarsi di quello che accade intorno a noi. Dobbiamo renderci conto che reclamare sicurezza continuando a dire “sono le Forze dell'ordine che devono procurarcela” va bene, ma questo è legittimo nella misura in cui le persone non si disinteressano della realtà circostante. Concretamente, mi riferisco a chi non si pone domande quando il suo vicino non esce di casa per quindici giorni, a chi si volta dall'altra parte quando sente suonare ripetutamente un allarme nel quartiere. Chi si comporta così non è legittimato a reclamare sicurezza. E' auspicabile insomma una maggiore responsabilità individuale dei cittadini.
Durante l'eventuale emergenza, evidentemente, è ancor più importante imparare quali siano i comportamenti adattivi. Che cosa fare in una situazione di emergenza? Un simile quesito dovrebbe essere parte dell'educazione civica che si insegna ai ragazzi. Io continuo a indignarmi per il fatto che un ragazzino esca dalla scuola senza sapere che cosa fare nel caso assistesse a un incidente stradale oppure come comportarsi nel caso si trovasse su un convoglio della metropolitana bloccato.
I due aspetti, prevenzione e gestione delle crisi, non vanno in disaccordo ma devono essere adeguatamente integrati. Credo che ci si debba far carico di un problema che esiste e fare formazione adeguata in questo senso.

Il recente summit internazionale di Washington (12-13 aprile) ha messo in luce il rischio che organizzazioni terroristiche, singole cellule o gruppi non strutturati possano accedere ad armi nucleari o comunque a materiale radioattivo (plutonio e uranio) per confezionare una bomba sporca. E' una possibilità reale oppure i sistemi che proteggono i depositi dove vengono conservati il materiale radioattivo e le armi nucleari sono sufficientemente sicuri?

La preoccupazione è legittima ed è giusta, ma deve essere ritarata. Si dice che siano scomparse migliaia di armi nucleari sovietiche e che nessuno sappia dove si trovano. Ne siamo certi? Sicuramente ne sono scomparse un po', ma avere una stima esatta è impossibile perché rimane grande incertezza su una passato che è sempre stato occultato per ragioni strategiche, tattiche e politiche.
Aldilà dei dubbi e dell'incertezza, tutti i governi, anche quelli che sembrano più lontani dal mondo occidentale, guardano con preoccupazione all'eventualità che il terrorismo possa entrare in possesso di armi e/o materiali nucleari. E' molto improbabile che un terrorista sia interessato a limitare gli effetti  catastrofici di un attacco non convenzionale. Le conseguenze di una simile azione potrebbero così toccare una pluralità di paesi che oggi molti definiscono contigui al terrorismo (ad esempio, l'Iran). Quindi l'interesse a evitare che l'incubo del terrorismo nucleare si concretizzi è più esteso di quanto si creda comunemente.
Devo anche evidenziare che non è affatto semplice avere le competenze per approntare un ordigno nucleare. Lo ricordo a coloro i quali vivono nella convinzione che grazie a un breve corso online e a una modica quantità di fertilizzante si possa costruire una potente “bomba sporca”. Per non parlare dell'expertise necessario per ottenere un ordigno nucleare vero e proprio. Chi pensa di imparare attraverso Internet il più delle volte si brucia…
Di conseguenza, se davvero vogliamo evitare che la minaccia si attualizzi non ci si deve limitare al controllo dei materiali e delle armi, ma anche di quegli individui che dispongono degli skill, le abilità, necessari per trasformare davvero la tecnologia nucleare in un agente di distruzione di massa. Inoltre, i pochi trafficanti che hanno la possibilità di mettere sul mercato armi e materiali radioattivi devono fare i conti con le ristrettezze economiche del periodo. Infatti, si tratta di investimenti pesanti che pochi attori internazionali possono in realtà permettersi.

Per concludere, una questione che definirei di natura sociologica.  Non crede che si debba prestare maggiore attenzione alla vulnerabilità di alcuni giovani di origine extraeuropea, immigrati di seconda generazione, che vivono in una insidiosa situazione di limbo tra la cultura d'origine e la cultura occidentale?

Un rischio di radicalizzazione della seconda generazione esiste, questo è indubbio, lo dice la Storia. L'immigrato di prima generazione è sempre un alleato del paese che lo riceve. Nella stragrande maggioranza dei casi un individuo emigra con un sogno; il fatto di trovarsi male nel paese di approdo significa dover abbandonare il sogno e riconoscersi sconfitto. Di conseguenza, la strategia esistenziale adottata da molti immigrati di prima generazione sul suolo europeo è stata quella di adattarsi a tutti i costi al nuovo ambiente in nome della sopravvivenza del proprio sogno.
La seconda generazione questo sogno l'ha perduto. Anzi, spesso vede nei genitori l'amarezza di non aver realizzato quello che volevano. Percepisce attraverso i genitori il ricordo di un paese lontano che proprio per questo è ancora più idealizzato. Molti di questi ragazzi sono potenzialmente dei dis-integrati, più di quanto non lo siano i genitori. Quindi la frustrazione latente è sempre suscettibile di emergere e amplifica il rischio che l'estremismo politico e religioso si insinui nel disagio personale e sociale di molti. Un motivo in più per intervenire con meccanismi di integrazione sempre più ampli.
Attenzione, non occorre agire solo nei confronti degli immigrati ma di tutto un mondo giovanile che vive nelle periferie delle grandi città. Una gioventù che si sente dimenticata dai grandi, abbandonata dal paese, che non trova lavoro e vive in un sistema educativo molto spesso criticato (non sempre correttamente). In questi ambienti è possibile che si costruiscano alleanze tattiche, sicuramente non ideologiche, per cui la frustrazione condivisa fa sì che il nemico del nemico sia necessariamente un amico. Un groviglio di contraddizioni e risentimenti su cui intervenire al più presto prima che produca esiti nefasti e duraturi. (A cura di Fabio Lucchini)


Marco Lombardi, responsabile del progetto ITSTIME, è professore associato all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove insegna Gestione della crisi e comunicazione del rischio; Teoria e tecniche delle comunicazioni di massa e Sociologia. E' membro del consiglio direttivo del Dottorato internazionale di criminologia e dei master in Scienze della Sicurezza urbana e in Contesti relazionali di emergenza. Coordina le attività della sezione Ambiente, territorio e sicurezza del Dipartimento di Sociologia e svolge attività di ricerca nell'ambito della gestione delle crisi, focalizzandosi soprattutto sui fenomeni legati al terrorismo. E' parte del gruppo di esperti che assistono la Commissione Europea nell'area "giustizia, libertà e sicurezza" e collabora con numerose agenzie istituzionali impegnate nel campo della sicurezza






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