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IL CORAGGIO DI OSARE

Il direttore del Corsera, Ferruccio de Bortoli, su "Milano e il suo destino"

Data: 2010-11-10

Ferruccio de Bortoli, Critica Sociale, n.7/2010,

Si può raccontare, con amore e chiarezza di analisi, la propria città. Lo si può fare in molti modi. Festa e Tognoli lo hanno fatto con un libro che si interroga sulle grandi scelte che abbiamo davanti. Un libro che ci racconta quello che siamo e che dovremmo rivendicare con orgoglio, ma ci ricorda anche quello che non siamo, mettendoci in guardia anche da quello che rischiamo di diventare. Un libro che potrebbe avere come sottotitolo: saggio sulla storia, la ricchezza e le ambizioni (e lo scarso orgoglio) di una grande capitale.
Alcune considerazioni che scaturiscono dalla lettura e possono essere utili al dibattito attuale sul destino di Milano. Prima di tutto, e l’abbiamo già detto, i milanesi hanno una scarsa consapevolezza del segno profondo che la loro città ha lasciato nella storia. Possiamo definirla, questa, un’emergenza educativa della nostra cittadinanza. La figura del milanese apolide, perché ormai cittadino del mondo, e’ detestabile, è glamour ma artefatta. Basta leggere il primo capitolo della cavalcata nei secoli di Festa e Tognoli, per rendersi conto che l’ understatement meneghino sarà anche elegante, ma è di una eleganza che può essere distruttiva. Perché accreditare, per esempio, un declino che non c’è? La città ha saputo risollevarsi nei momenti più tragici, anche dopo essere stata decimata dagli ostrogoti o piegata dalla peste, perché non dovrebbe riaffermare o riconquistare quel ruolo di capitale cosmopolita, colta e aperta, che le appartiene quasi di diritto?
Insomma, esiste anche un rito ambrosiano di diritto civile, una liturgia della municipalità che innova, dell’autonomia che reinventa continuamente il proprio essere, pur in equilibrio precario fra internazionalizzazione e provincialismo, nostalgia meneghina e costruzione del futuro. E il capitale culturale e sociale della nostra città esprime tutte queste potenzialità. Gli altri, in particolare all’estero, lo apprezzano. Noi un po’ meno. Se il genius loci esiste, la prova e’ a Milano. Milano e’ una città di homines novi, non di anime perse. Lo e’ ancora? Io credo di si’. Ma dovremmo combattere di più e meglio quella sottile tendenza a sottovalutarsi, a schermirsi continuamente, non a vergognarsi di quello che si e’ ma a rinunciare ad affermare la ricchezza e la continuità di una grande tradizione di civiltà milanese. Che non ha pari.
Un cronista del libero comune notava, siamo nel Medioevo, che Milano aveva costruito molti ospedali e poche torri, nonostante la tradizione romana, a dimostrazione che il milanese, non apprezza l’ostentazione dei simboli del potere, ama la riservatezza fino al punto di rendere una casa brutta di fuori per goderne meglio la bellezza dentro. Forse e’ il momento di costruirle quelle torri. Di avere il coraggio di osare, che e’ caratteristica dei periodi migliori e di maggior fermento creativo della milanesità. L’elettrificazione fu osteggiata nell’Ottocento, al pari della metropolitana negli anni Sessanta. Viene ricordato nel libro la frase di Verri: siamo una città di bastian contrari con una scarsa predisposizione alla concordia. La concordia non è tra le nostre più diffuse virtù. E la tendenza alla divisione anche fra le forze politiche, pur nella collaborazione resa possibile da un forte spirito municipale, è stato uno dei tratti della prima repubblica. Non c’è mai stata un’ egemonia decisa di un partito sull’altro. E nell’inclinazione a bilanciare sempre i poteri, imperiale o vescovile, nobile o borghese, emerge una costante insofferenza per chi di potere ne prende troppo, che viene abbandonato con una certa fretta. Insomma Milano si disamora abbastanza velocemente di chi la guida, a volte vi si rivolta contro, come accadde per i Torriani, senza parlare di Prina.
Nelle fasi migliori della propria storia Milano è stata capace di attrarre talenti, da Leonardo a Giotto a Stendhal, ma soprattutto di mettere in condizioni le avanguardie, i riformisti e i sognatori, di coltivare i loro progetti. Milano è sempre stata una città di progetti e utopie. Questa è una delle tante linee invisibili che uniscono la nostra storia: l’ambizione a svolgere un ruolo di capitale, dall’impero romano in poi, abbracciando e inglobando popoli e culture, com’è evidente dalla sua forma urbis circolare; destinata a stare nel mezzo, con la missione di mediare, di comporre, di valorizzare l’incontro, spesso il sanguinoso scontro, fra forze contrastanti, potenze quasi sempre superiori a Milano, come avvenne con i diversi occupanti, dagli spagnoli ai francesi , agli austriaci.
Quello che si nota nello scritto di Festa e Tognoli, è l’influenza civile, culturale ed economica esercitata in varie fasi storiche da Milano anche sui suoi dominatori. Milano ha ovviato con le armi civili alla cronica mancanza di potenza militare unita alla carenza di difese naturali. La potenza militare l’ha avuta nel periodo ducale, certamente, anche se non si è tradotta in un’ambizione statale. E’ stato un progetto di dominio italiano interrotto. Ma nell’espansione della Milano ducale, si intravvede, ed è questo un passaggio molto significativo del libro, il destino ad essere capitale e guida di un insieme di città legate in un territorio padano, oggi diremmo una città infinita. Milano era una capitale reticolare già sotto i Visconti e gli Sforza.
Insomma, siamo stati condannati (per fortuna) a politiche di apertura, di accoglienza e alla costruzione di un modello del tutto orginale di melting pot ambrosiano, di impasto di genti diverse, pur avendo caratteri riservati e schivi. Questa è una bella contraddizione meneghina che dovrebbe farci riflettere, anche oggi. Il futuro di Milano non è nella chiusura e nella conservazione. Siamo gente di pianura, di comunicazione e di commerci, depositari di una grande tradizione di autonomia illuminata che ha reso la società milanese, nel tempo, la migliore nella capacità di autorganizzarsi, facendo a meno di un’autorità centrale, pur avendo poi tentato di sostituirla in vario modo e con esiti che conosciamo. Diciamo che il meglio di noi non lo abbiamo dato quando abbiamo esportato a livello nazionale questa capacità di autogoverno. E’ come se ci fosse un limite fisico e storico alla milanesità. Siamo eccellenti nelle medie dimensioni. Un po’ quello che è accaduto alle nostre imprese cittadine, dalla Montecatini alla Pirelli.. Ma nell’era del principio di sussidiarietà, delle reti di comunicazione, della società della conoscenza, delle eccellenze biomediche, dell’incrocio fra cultura ed economia, il modello milanese rimane un unicum straordinario. Produce imprese e istituzioni, crea cittadinanza e comunità. Ha alcuni nemici, ma sono tutti interni: l’amnesia milanese, il dimenticarsi che cosa si è, la perdita di consapevolezza e di profondità storica della propria appartenenza, il profilo evanescente di una classe dirigente un po’ invecchiata e un po’ imbolsita che preferisce andarsene i fine settimana in Svizzera o a New York. Per riposarsi o divertirsi? No, per sentirsi orgogliosamente milanese. All’estero, però.






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