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GIULIANO AMATO: "COME EVITARE
LA TRAPPOLA DELLA SPECULAZIONE"

Dal Consiglio europeo di metà di dicembre, a fianco delle politiche di riassestamento, servono ormai politiche per la crescita


Data: 2010-12-04

Giuliano Amato

Sotto la spinta della crisi si è venuto rafforzando un indirizzo che il riformismo europeo favorisce da anni. Nella consapevolezza che tutte le forze economiche che contano hanno come minimo una dimensione europea, noi che possiamo esercitare un'influenza sulla vita collettiva attraverso le istituzioni, abbiamo bisogno della dimensione istituzionale europea per intervenire e in qualche modo bilanciare. Se tornassimo a rileggere le opinioni sulla Comunità europea dei partiti socialisti (era il partito comunista negli anni 50 ad essere contrario alla nascita della Comunità europea) ci ricorderemmo che essi dicevano che “se è l'Europa dei monopoli non va bene”, ma precisavano che “se ci dà dei canali per governare i processi economici, allora la Comunità europea va bene”. Da allora abbiamo sempre pensato che rafforzare i canali europei contribuisse ad un obiettivo di equilibrio, perchè è una dimensione che investe le istituzioni politiche, così come il mondo delle relazioni industriali.
Con la crisi attuale, dunque, la canalizzazione si sta in realtà spostando. Se io dovessi rispondere al solito giornalista che ti chiede se sei pessimista o ottimista sulla crisi, direi che sul piano istituzionale sono abbastanza ottimista perchè vedo in atto una dinamica che porta ad una più stretta cooperazioneQuindi ora abbiamo un Parlamento europeo che è cresciuto e mette bocca in tante cosa; ha una presenza politica (che è sempre più “politica”, grazie al Regolamento europeo) perchè effettivamente i deputati europei tendono a parlare sempre meno in base alle nazionalità, e sempre più come gruppi politici, con una seppur difficoltosa uscita dal semplice “intergovernativismo” sul piano delle politiche economiche e forse anche su quello delle politiche sociali. Detto questo, occorre sempre aver presente che la Governance la riempiono le politiche. Quello che sostengo è che se ci sono politiche capaci di europeizzare in termini positivi la nostra vita economica e sociale, la “governance” si adatta.Il dramma europeo di oggi che non possiamo ignorare, è che invece le politiche sono agghiaccianti. Questo è l'euro che la Germania aveva in mente sin dall'inizio. O per lo meno, il primo treno dell'euro avrebbe dovuto imbarcare soltanto i Paesi citati, forse neppure l' Austria, ma di sicuro Germania, Benelux e Francia. L'area-euro ha di sicuro un difetto: che l'intergovernativismo ha dimostrato di essere insufficiente a correggere: se ci ricordiamo delle discussioni che si facevano prima dell'introduzione dell'euro, ci fu chi disse ripetutamente: “guardate, se non vi dotate di una politica economica e fiscale più centralizzata, davanti ad uno shock asimmetrico andrete gambe all'aria”. Si rispose che “noi facciamo un coordinamento che crea convergenza tra le nostre economie e lo shock asimmetrico non ci sarà”. E infatti c'è stato. Il coordinamento non è stato in gradi di superare in modo convergente le asimmetrie e gli squilibri macro-economici tra di noi, e quando è arrivata la botta, ha infilato la porta dei Paesi più deboli.
La lezione qual è? Nelle conclusioni dell'ultimo Consiglio europeo anche la Germania ha accettato il principio di definire degli indicatori e delle soglie di tollerabilità sulle divergenze macro-economiche e di adottare le misure indicate dalla Commissione e dal Consiglio a quei Paesi che o per eccesso di surplus, o per eccesso di deficit si discostano dagli indicatori prescelti. Questo siamo in grado di farlo, non è detto che la Germania sia felice di farlo, però responsabilmente lo ha accettato. Qui bisogna entrare, e qui entrano anche quelle politiche sociali che sono anche politiche di liberalizzazione ed in Germania, nei servizi, le liberalizzazioni potrebbero mettere in moto qualcosa che oggi non c'è.Martin Wolfe, sul Financial Time (e poi sul Sole) ha ammonito sull'uso corretto degli strumenti finanziari.
Faccio un esempio semplicissimo: se si crea un fondo importante che possa dire al mercato “datti una calmata, perchè posso entrare io in qualunque momento e ti fermo”, che bisogno c'è di costringere l'Irlanda a ridurre i salari e a perdere posti di lavoro, quando il Fondo garantisce quel debito? Un paese in deficit, deve necessariamente mettere a posto i conti, ma non necessariamente scorticando vivi i suoi cittadini. Sennò il Fondo per quale ragione è stato fatto? Se ciascuno deve garantire da solo il proprio debito, con misure che uccidono la sua economia, non c'è bisogno del Fondo finanziario europeo. Allora è come se ci fosse una sorta di doppio intervento. Questo è difficilissimo da dire: lo potrebbe dire solo un inglese, che sta fuori e può permettersi di dire “guarda questi europei che confusione che combinano”.
Dirlo all'interno del sistema europeo è molto difficile, ma c'è bisogno di porre attenzione a questo aspetto, alle misure necessarie a ristabilire un equilibrio e l'esistenza di un Fondo che dovrebbe servire come prima e principale difesa.
Se il Consiglio europeo di metà dicembre non riuscirà a rimettere al centro dell'attenzione, al fianco delle politiche di aggiustamento finanziario e fiscale, le politiche per la crescita, ecco, arriveremo ad un passo dal rischio di desertificazione di tre quarti dell'Europa. Che danneggerà la stessa Germania la quale ha bisogno di noi: basta guardare i dati sul commercio internazionale tedesco per vedere che i più grandi compratori sono la Cina e questi “sciagurati” Paesi meridionali dell'Europa che tanto fanno irritare il contribuente tedesco. Bisogna arrivare a capirsi, bisogna veramente arrivare a capirsi.
Insomma, noi tutti abbiamo aderito a questa visione del “prima di tutto l'aggiustamento” che la Germania ha portato avanti in questi mesi. Non sarò io a negarlo. Lo abbiamo fatto perchè i rischi sono forti nella fase prossima, nella quale la concorrenza tra i titoli pubblici sul mercato finanziario diventerà elevatissima, e chi è debole rischia di non trovare compratori per i propri titoli se non a prezzi elevatissimi, che poi ricadono sulle generazioni future. Questo è un tema giusto che la Germania ha posto. Però attenzione! Non possiamo trattare allo stesso modo Paesi i cui conti pubblici sono saltati per politiche domestiche irresponsabili, e Paesi nei quali i conti pubblici stanno saltando perchè sono stati assorbiti dal debito pubblico, i debiti privati. Insomma, c'è poco da fare: il debito irlandese è arrivato al 30 per cento perchè si sono salvate delle banche.Ma allora chiariamoci le idee per il futuro: cosa è meglio? Che non fallisca nessuna banca e che fallisca un intero Paese, oppure che fallisca ogni tanto una banca, ma non fallisca un intero Pese? L'esperienza che stiamo facendo è proprio questa. Se io oggi fossi un lavoratore greco mi arrabbierei comunque, ma capirei che se il Paese avesse lavorato di più in passato si troverebbe in meno guai. Ma se fossi un dipendente pubblico irlandese, e che oggi perderò il posto di lavoro perchè hanno dovuto salvare la tale Banca che ci è caduta sul bilancio pubblico, beh, rimango arrabbiato e non trovo una ragione per la quale debba essere io a pagare questo prezzo. Esiste questo problema, in realtà.
E il secondo gigantesco problema, che è un problema ineludibile per i riformisti, i socialisti e i socialdemocratici europei, è che non possiamo risolvere i nostri problemi portando tre quarti dell' Europa all'inedia, senza possibilità di crescita.Non può essere che l'unica politica che facciamo è quella del' “riaggiustamento”. Fino a qualche anno fa circolava la tesi, che poi fortunatamente è stata abbandonata e nessuno oggi osa riproporla, che ridurre il debito pubblico stimola la crescita perchè incentiva gli investimenti privati: non è semplicemente vero. Ridurre il debito pubblico in genere riduce il debito disponibile di coloro che consumano, e quindi finisce per avere effetti ciclici depressivi.
Oggi siamo alle prese con questi effetti depressivi, come li compensiamo? Dal punto di vista riformista sono due le questioni da affrontare: la prima è quella delle politiche per la crescita, nel senso che ciò che non può essere fatto in sede nazionale, deve essere fatto in sede comune europea. Inoltre, quella raccolta di risorse finanziarie che non riesce a fare il singolo stato, perchè ne ha già fatta fin troppa per coprire i suoi Bonds, la facciano le istituzioni finanziarie europee, senza gravare sul bilancio dell'Unione: abbiamo Banche europee, ci pensino loro. Perchè ci deve essere una montagna di soldi in Europa, costituita dal risparmio dei cittadini europei che non possiamo utilizzare, perchè dobbiamo stare tutti lì, fermi, immobili, a pagare le tasse e a rinunciare al salario, quando tutti questi soldi vanno a Oriente? Ma è possibile tutto questo? Non c'è nessuno in sede europea che chieda ”per che cosa”? L'Italia dice di non aver bisogno di essere garantita, ed è vero perchè ha un alto risparmio pubblico ed un basso debito privato. Cosa vuol dire? Che in qualche modo l'Italia è in grado di pagarsi il debito, c'è liquidità. E perchè non comincia a ripagarlo, visto che ha tutto questo risparmio privato e così poco debito privato? L'Istat ha detto che il nostro debito totale ammonta a circa 30.000 euro per italiano. Non è così gigantesco. Un terzo di questo debito abbattuto metterebbe l'Italia in una zona di assoluta sicurezza. Potrebbe arrivare a circa l'80 per cento del Pil. Un terzo significa, probabilmente, imporre ad un terzo degli italiani, teoricamente, di pagare un terso dei 30.000. E' così spaventoso spalmare, tra chi ha di più rispetto a chi ha di meno, 10.000 euro per risolvere un problema che così grave? Nessuno, nemmeno la sinistra ha il coraggio di sostenere una simile proposta.(Dall'intervento al convegno promosso dalle Nuove Ragioni del Socialismo, la rivista diretta da Emanuele Macaluso, e dalla Ebert Stiftung, la fondazione della socialdemocrazia tedesca sui “Socialdemocratici nell'Europa in crisi”. L'intervento dell' esponente socialista, già presidente del Consiglio, è ripreso nel nuovo numero della rivista Critica Sociale).






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