Critica Sociale, dicembre 2010,
Il curriculum di Walter Russell Mead, nel novero dei più importanti studiosi americani di relazioni internazionali, è davvero impressionante. Autore dell'evocativo saggio "Il serpente e la colomba. Storia della politica estera degli Stati Uniti d'America", è professore di Relazioni Internazionali al Bard College, Distinguished Fellow all'Università di Yale, già Fellow al Council on Foreign Relations e collaboratore della rivista Foreign Affairs. Favorevole nel 2003 alla guerra in Iraq, Russell Mead rimane comunque vicino alle posizioni Democratiche, avendo sostenuto la candidatura di Obama alle elezioni del 2008. La sua libertà di pensiero rispetto alle divisioni partitiche e la sua profonda conoscenza delle dinamiche decisionali e culturali della politica estera ne fanno uno degli analisti più ascoltati a Washington, dalle amministrazioni Bush a quella attuale. Il Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (Cipmo) ha cucito intorno all'illustre ospite un rilevante simposio a Milano, che è stata l'occasione per una vivace discussione sull'approccio statunitense ai temi caldi del Grande Medio Oriente. Con Russell Mead hanno discusso il direttore del Cipmo, Janiki Cingoli, gli inviati speciali in Medio Oriente de Il Sole 24 Ore e Il Giornale, Ugo Tramballi e Marcello Foa, con l'intervento di Vittorio Emanuele Parsi, professore di Relazioni Internazionali all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Ne è risultato uno stimolante confronto a più voci che ha apportato originali elementi di riflessione al dibattito su una tematica certamente non nuova, ma che rimane tuttavia di stringente attualità.
L'Iran alla ricerca di uno status: influente, ma in difficoltà
Russell Mead: Il Medio Oriente è una regione talmente complessa da rendere arduo ogni tentativo di trattazione complessiva. L'amministrazione Obama si è posta due anni fa obiettivi molto ambiziosi e, nonostante le difficoltà incontrate, qualche risultato positivo è stato ottenuto. Ad esempio, le sanzioni decise in sede internazionale contro il programma nucleare iraniano appaiono più serie che in passato perché incidono sotanzialmente sui piani di Teheran. Ora gli Stati Uniti possono contare su un sostegno internazionale più ampio per mettere pressione su Ahmadinejad. Se leggiamo con attenzione gli scomodi documenti rivelati da WikiLeaks, la minaccia iraniana sembra aver compattato più che mai il mondo arabo, che oramai condivide gli stessi timori occidentali rispetto alle scelte iraniane. Sotto questo profilo, vorrei anche demistificare la vulgata secondo cui il caos dominerebbe in Medio Oriente: noto invece elementi di consenso che uniscono governi e opinioni pubbliche; uno di questi è appunto la percezione dei rischi legati alla scalata egemonica dell'Iran e alla proliferazione nucleare.
Foa: Non ho ancora compreso quale sia la reale strategia dell'amministrazione Obama in Medio Oriente e mi preoccupano le reazioni iraniane alle note diplomatiche rese pubbliche dall'organizzazione di Julian Assange. Ora l'Iran sa che non solo Israele ma anche importanti paesi arabi (ad esempio, i sauditi, ndr) spingono per un attacco ai suoi danni. Devo anche ammettere di non aver notato alcuna rottura di fondo tra la condotta obamiana e l'operato di George W. Bush. E allora, mi chiedo, cosa dobbiamo aspettarci, quale sarà l'atteggiamento degli Usa verso l'Iran nei prossimi mesi?
Parsi: Fatico a rilevare e a misurare il rallentamento del programma nucleare iraniano. Piuttosto temo i successi di Teheran nella sua tenace opera di destabilizzazione del Libano, un paese fragile che può "saltare" da un momento all'altro, con pesanti conseguenze sulla stabilità dei suoi vicini e sugli equilibri di potere nell'area. Insomma, mi sembra di poter concludere che rispetto al passato recente l'America sia meno temuta ma comunque poco incisiva nel condizionare gli sviluppo mediorientali.
Russell Mead: Per tornare all'Iran, stando alle impressioni che raccolgo nei miei viaggi e nei miei incontri devo riconoscere che la capacità di Teheran di influenzare la linea di Hamas e di condizionare l'equilibrio libanese si sta consolidando. Credo che il governo degli ayatollah persegua con pervicacia lo status di grande contro-potere regionale. Gli iraniani, sciiti e persiani, sognano di sedersi al tavolo con gli Stati Uniti per dialogare da pari a pari sul futuro del Medio Oriente, escludendo tutti gli altri attori regionali: arabi, ebrei e turchi. Non voglio semplificare o apparire superficiale, ma la mia sensazione è questa, anche se considero irrealizzabile una simile pretesa. E' una questione di equilibrio: è necessario intensificare la pressione diplomatica ed economica sull'Iran, per indurre la sua leadership ad accettare senza voli pindarici il suo ruolo di media potenza regionale; allo stesso tempo, il problema iraniano non può essere rimosso radicalmente e senza conseguenze come vorrebbero alcuni alleati dell'America. Comunque, ribadisco, a giudicare dalle informazioni in mio possesso posso affermare che la libertà di manovra della pur influente Repubblica Islamica dell'Iran si è ridotta in seguito al round di sanzioni deciso tra giugno e luglio dalle Nazioni Unite e dall'Unione Europea.
Ho fatto riferimento alla Turchia. Molto si è parlato dell'attivismo di Ankara negli ultimi mesi, anche in dissonanza rispetto agli interessi occidentali e americani. Vorrei proporre una differente chiave di lettura e ricordare il tradizionale apprezzamento della diplomazia americana per l'equilibrio in Medio Oriente. Washington teme da sempre l'affermazione egemonica di un unico attore nell'area, poiché nessuno dovrebbe aver il potere di controllare o interrompere i traffici energetici regionali e di recare un conseguente grave danno all'economia mondiale. In quest'ottica, l'emergere della Turchia non è di per sé destabilizzante per gli Stati Uniti, perché va a bilanciare il peso di altre realtà regionali, potenzialmente perniciose. Detto fuori dai denti, Washington non deve temere una saldatura strategica Teheran-Ankara, perché la Turchia persegue una linea ben distinta da quella iraniana. La Turchia vive una fase di forte e disordinato sviluppo interno ed è scossa dalle contraddizioni tra le sue due anime, religiosa e laica. Il dissidio interno si riflette talvolta in una politica estera ondivaga, ma non tale da prefigurare clamorosi cambi di alleanze. Anche per quanto concerne i rapporti con Israele, aspetterei a trarre conclusioni drastiche. Le relazioni bilaterali sono entrate in una fase di instabilità, ma non si sono irrimediabilmente deteriorate.
Israele e Palestina. Tra speranza e diffidenza regna lo status quo
Tramballi: Russell Mead ha ragione quando invita a non ingigantire la gravità della situazione in Medio Oriente, anche se vorrei approcciare diversamente la questione. Credo che la più pesante e preoccupante eredità lasciata da Bush non riguardi gli strascichi della guerra in Iraq, ma la circostanza che il debito pubblico americano sia nelle mani dei paesi emergenti (Cina in testa) che, dal canto loro, a differenza degli Stati Uniti, non stanno disperdendo risorse ed energie nel tentativo di risolvere le dispute mediorientali. Infatti, i grandi paesi che presto contenderanno l'egemonia mondiale agli Usa (Cina, India e Brasile) non avvertono alcuna responsabilità storica rispetto al dramma israelo-palestinese e pertanto assumono un atteggiamento di guardinga indifferenza rispetto alla questione, lasciando agli Usa l'onere dell'impegno diretto in Medio Oriente. Da decenni, il governo degli Stati Uniti si gioca nell'area larghe fette della propria reputazione. Se questo è stato tollerabile negli anni vissuti da lonely superpower, dal crollo dell'Urss in poi, nel mondo segnato dalla competizione multipolare il fardello diverrà presto insopportabile. L'amministrazione Obama, che ha esordito con promesse mirabolanti seguite da pochi fatti concreti, dovrà tenerne conto.
Russell Mead: Mi sono confrontato con molti protagonisti di primo piano della scena palestinese, israeliana e statunitense e nessuno, da Henry Kissinger a Hillary Clinton, ritiene che la pace sia vicina. Chiediamoci perché molti di coloro i quali in Israele si dichiarano pronti alla pace e favorevoli a una soluzione bi-statale sono tuttavia convinti dell'impossibilità di raggiungere un accordo con i palestinesi. Vi è una sfiducia generalizzata nelle possibilità del governo palestinese di controllare la violenza dopo l'eventuale firma di un trattato di pace. Gli israeliani credono cioè che il ribellismo e la violenza siano ormai insiti nello stile politico di larghi settori del mondo palestinese. A ciò si aggiunge il timore che i paesi vicini (la Siria in particolar modo) seguitino a strumentalizzare la situazione di disagio delle popolazioni della Striscia di Gaza e della Cisgiordania per fomentare azioni anti-israeliane. Pertanto, gli orientamenti politici del pubblico israeliano tendono, e tenderanno sempre più, a destra e questo dato di fatto si accentuerà di pari passo al mantenimento dello stallo, dello status quo negoziale.
In simili circostanze, lo spazio di manovra americano è ridotto, anche se non disprezzabile, in particolar modo in Cisgiordania. Grazie anche alla collaborazione con l'Unione Europea si stanno compiendo progressi nella costruzione di una realtà statale palestinese, per quanto difettosa e lacunosa. La sfida è rendere questo embrione di Stato stabile, efficiente e in grado di reggersi sulle proprie gambe. E' un progresso concreto, che Israele dovrà riconoscere e rispettare. Sapendo che dall'altra parte della barricata esiste un attore che lavora per diventare ogni giorno più credibile e affidabile, la fiducia si accresce e si aprono prospettive per discutere in maniera trasparente, per obbligarsi reciprocamente al rispetto degli impegni presi.
Diversi anni fa, ho cominciato a studiare le turbolente relazioni del mio paese con Cuba e ho compreso che in assenza di un rapporto fiduciario fra le controparti lo status quo diventa preferibile alla risoluzione del problema. Quanto si sta compiendo in tema di sviluppo economico (e più in generale di capacity building) in Cisgiordania è fondamentale per fortificare la società palestinese, elevandone il livello di benessere e consapevolezza e riducendo i legittimi motivi di lagnanza che in essa si annidano. E' il prerequisito perché ci si concentri sulla sostanza dei problemi che dividono israeliani e palestinesi, lasciando da parte il risentimento, il sospetto e l'emotività.
Tramballi: E' vero, i progressi non mancano, ma temo di assistere a un film già visto. Anche negli anni novanta l'economia palestinese funzionava discretamente, forse meglio di oggi, ma lo sviluppo non elimina le contraddizioni soggiacenti al conflitto. Non è sufficiente aumentare il Pil prodotto dalla Cisgiordania se la popolazione vive con irritazione la costruzione di nuovi insediamenti israeliani o se il nazionalismo religioso ebraico diventa sempre più influente sull'azione del governo di Netanyahu. Aldilà di questo inciso, vorrei attirare l'attenzione sul ruolo delle nuove potenze, in particolar modo della Cina, sugli equilibri del Grande Medio Oriente (dall'Afghanistan al Marocco, ndr).
Foa: Purtroppo, noto una cristallizzazione dell'inimicizia e della diffidenza reciproca tra israeliani e palestinesi. Se questa sensazione fosse veritiera, ogni prospettiva di negoziato risulterebbe intaccata.
Cingoli: Vorrei aggiungere un elemento di riflessione. L'inviato speciale del presidente Usa, George Mitchell, si è dato tempo sei settimane per valutare a pieno la situazione sul terreno. Poi che accadrà? E' presumibile che egli avanzi una proposta impegnativa per il suo governo o ci si accontenterà di continuare a gestire il conflitto, come è successo sinora? In altre parole, dopo l'inizio promettente di Obama e lo stallo attuale, è lecito aspettarsi un'iniziativa diplomatica seria da parte degli Stati Uniti?
Russell Mead: E' importante capire quanto la politica Usa sia ormai incentrata sull'Asia, non solo sulla Cina. Forse non tutti l'hanno notato, ma l'India, geograficamente vicina al Medio Oriente, è stato l'unico grande paese dove George W. Bush sia stato molto popolare negli anni del suo mandato. Inviterei anche a seguire con attenzione l'evolvere dei rapporti indo-israeliani. Non è escluso che Israele stia pensando a New Delhi come a un nuovo prezioso partner strategico. Non sarebbe il primo cambio di partnership per lo Stato ebraico, che durante la guerra contro gli arabi del 1948-49 si appoggiò all'Unione Sovietica, nel corso della crisi di Suez del 1956 collaborò strettamente con Gran Bretagna e Francia e che vinse la Guerra dei Sei Giorni del 1967 anche grazie alla cooperazione statunitense. Consiglio di accantonare l'immagine un po' stereotipata di un Israele isolato e dipendente dall'appoggio americano. Attenzione all'Asia quindi, alla Cina ma anche all'India, che potrebbero presto dire la loro in Medio Oriente.
Torniamo alla radice del problema, che non si può considerare soltanto alla luce delle dispute territoriali. Mi riferisco al diritto al ritorno nei Territori, invocato dai palestinesi costretti a vivere fuori dalla Palestina geografica. Se molti dei palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza controllata da Hamas versano in condizioni disagiate, non si può dire che sia migliore la condizione dei loro "connazionali" che vivono nei paesi arabi vicini. Andando a ritroso sino al piano di partizione Onu del 1947, è difficile attribuire a Israele tutte le colpe del dramma palestinese. La comunità internazionale nel suo complesso condivide evidenti responsabilità.
Certo, la soluzione bi-statale sembra la più ragionevole, ma tecnicamente non è sufficiente a dare una risposta all'esigenza di tutti i palestinesi che, sia nei Territori che nel resto del mondo, aspirerebbero a tornare nella loro terra, rimpianta e idealizzata. Un'aspirazione irrealizzabile. Ciò premesso, ogni accordo di pace patrocinato dalla comunità internazionale avrà vita breve se non si troveranno soluzioni adeguate e dignitose per il maggior numero possibile di palestinesi che vivono in condizioni difficili e comprensibilmente non lo accettano. Ovunque essi si trovino, nei Territori o altrove. Alleviare il disagio esistenziale di costoro è la condizione necessaria perché acconsentano a una soluzione che negherà, in ogni caso, il diritto al ritorno nella Palestina geografica a tutti coloro che lo richiedono.
Molti arabi sono stati scacciati dalle loro terre dopo la vittoria di Israele nel biennio ‘48-49, ma è altrettanto vero che un numero pressoché coincidente di ebrei sono stati allontanati dalle città del Medio Oriente nel corso dei secoli. E che dire della condizione di quanti, in seguito alle campagne di pulizia etnica che hanno investito i Balcani negli ultimi anni, vivono lontano da quella che considerano la propria casa? Molti popoli della Terra cullano un senso del proprio destino che non trova corrispondenza nella realtà, spesso in seguito a ingiustizie e brutalità. Sarà cinico, ma non è possibile, né utile, cercare di tornare indietro, voler cancellare gli accidenti storici. I palestinesi e gli israeliani, come altri popoli in conflitto, farebbero bene ad accantonare le sterili recriminazioni rispetto a un passato ormai sepolto per cercare invece il modo di vivere meglio il presente e il futuro.
Una politica estera democratica
Tramballi: Leggendo il suo saggio che descrive la teoria e la pratica della politica estera americana, "Il serpente e la colomba", ho ricavato la sensazione che negli ultimi tempi la capacità degli Stati Uniti di definire e determinare gli affari globali stia scemando.
Russell Mead: In America viviamo coscientemente la nostra proverbiale mancanza di raffinatezza e calcolo nell'impostazione e nella pratica minuta della politica estera. Gli europei ci accusano di essere influenzati dal moralismo e di comportarci in maniera naif. E' un'etichetta che accompagna l'America dal diciannovesimo secolo e dalla quale non ci siamo ancora liberati, anzi abbiamo in un certo senso interiorizzato, fatto nostro, questo modo di raffigurarci.
Tuttavia, vorrei sottolineare che questa nazione, nonostante la mancanza di una tradizione paragonabile a quella europea, la presunta scarsa competenza del proprio corpo diplomatico e l'avventatezza rimproverata ai decisori politici che la rappresentano, negli ultimi duecento anni ha ottenuto grandi successi nell'arena internazionale. Gli errori non sono mancati, anche grossolani, ma per ragioni imperscrutabili siamo sempre usciti vittoriosi dai processi storici di medio periodo. Le sconfitte ci sono state, ma mai definitive e irrimediabili. Non voglio apparire nazionalista, non voglio parlare in questa sede di "destino manifesto", ma solo abbozzare una spiegazione plausibile.
Negli Stati Uniti, a tutti i livelli di governo, le élite devono sempre tener conto del volere dei rappresentanti del popolo. E questo si concretizza nell'influenza del Congresso sulle scelte di politica estera. E' un'influenza talvolta pesante e apparentemente irrazionale, che sovverte o indebolisce le scelte presidenziali. Spesso ciò si è tradotto in condotte incoerenti e poco lineari. L'influsso, sebbene indiretto, del popolo sulla politica estera Usa ha insomma determinato delle incongruenze e, a volte, delle forzature, ma vorrei proporre una suggestione. Possiamo dire che la democratizzazione estrema della politica estera del mio paese ha rappresentato nel lungo periodo il sentire più autentico dell'ethos americano e forse l'espressione più piena di un concetto che gli stessi politologi faticano a definire e delimitare: l'interesse nazionale. Sinora questo assiduo, e se vogliamo disordinato, controllo dell'opinione pubblica sulle scelte di politica estera delle élite ha dato buoni risultati. Il futuro ci dirà. (A cura di Fabio Lucchini)