Critica Sociale, marzo 2011,
Vittorio Emanuele Parsi, autorevole commentatore e professore di Relazioni Internazionali presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, discute con la Critica Sociale degli eventi che stanno sconvolgendo il mondo arabo. Dopo le rivoluzioni tunisina ed egiziana, la rivolta libica contro il regime quarantennale di Muhammar Gheddafi si sta risolvendo in un durissimo scontro militare. Nonostante la repressione attuata dalle forze governative, che avrebbe causato migliaia di morti, Tripoli sembra vacillare e la comunità internazionale, dopo aver condannato all'unanimità le violenze, si interroga sulle conseguenze destabilizzanti di un guerra civile nel Paese e sulle prossime mosse da intraprendere.
Professor Parsi, l'esplosione in serie delle rivolte arabe è stata da molti paragonata agli avvenimenti europei del 1989. Dopo gli eventi epocali che hanno determinato il crollo del blocco sovietico, il sistema internazionale ha avuto negli Stati Uniti l'unico punto di riferimento. Ora, a oltre vent'anni di distanza, l'incapacità americana di prevedere le sollevazioni nordafricane sancisce definitivamente la fine del momento unipolare?
I fatti delle ultime settimane certificano la perdita di influenza statunitense sugli affari mediorientali e al contempo pregiudicano ulteriormente l'egemonia globale di Washington. Del resto, gli Stati Uniti hanno finora mantenuto un ruolo preponderante in due teatri geopolitici: il Medio Oriente allargato e l'Asia Orientale. E questo era fondamentale per alimentare e legittimare il loro ruolo di unico global player. Nel primo caso l'influenza americana si sta erodendo, nel secondo è presumibile che si eroderà nei prossimi anni. La circostanza preoccupante, e allo stesso tempo promettente, è che nessun attore, interno ed esterno al Medio Oriente, sembra in grado di riempire il vuoto che gli Stati Uniti lasceranno. Non è affatto scontato che l'assenza di un egemone regionale comporti problemi di stabilità, anche se trovare un equilibrio tra diversi attori statali in competizione nella regione non sarà impresa facile.
Negli ultimi giorni si è fatta largo l'ipotesi (poi smentita dal governo Usa) della predisposizione di una no-fly zone per evitare che l'aviazione di Gheddafi continui ad attaccare i ribelli. Ritiene che la Nato possa stabilire una propria presenza fisica sul territorio? E con quali conseguenze?
Sarebbe un errore colossale e non credo verrà commesso. I vertici della Nato hanno già specificato che l'organizzazione interverrà solo nel quadro di un'azione decisa dalle Nazioni Unite. La Cina (membro permanente del Consiglio di Sicurezza Onu, ndr) si è già opposta all'uso della forza nel teatro libico e anche il segretario di Stato americano, Hillary Clinton, si dichiara contraria alla no-fly zone, una misura che, se adottata, potrebbe costringere all'uso della forza per farla rispettare. Proprio ciò che il governo Usa non vuole.
I precedenti storici (Bosnia, Kosovo e Iraq) dimostrano che le no fly-zone spingono fatalmente gli Stati che le impongono a prendere il controllo della zona soggetta alla misura. Se i paesi occidentali cedessero alla tentazione, subirebbero strumentalizzazioni di ogni genere e si esporrebbero all'accusa di agire secondo logiche neo-coloniali per prendere il controllo dei pozzi petroliferi libici. Mi auguro che nessuno cada in un simile tranello.
In effetti, l'ipotesi della no-fly zone in quanto a stravaganza mi sembra paragonabile solo alla recente proposta di Bill Emmott sul quotidiano La Stampa. L'ex direttore dell'Economist suggerisce di accogliere nell'Unione Europea le nascenti democrazie arabe...
Come valuta la posizione dell'Italia in questo difficile frangente? Come noto, abbiamo grossi interessi nel Mediterraneo, un punto di snodo fondamentale dei complessi intrecci energetici che legano il nostro paese non solo alla Libia ma anche alla Russia e alla Turchia.
E' bene essere chiari: l'Italia, come ogni altro paese occidentale, non può in alcun modo influenzare le dinamiche del Mediterraneo Meridionale. Se il Colonnello dovesse cadere, e mi permetto di conservare qualche riserva sull'immediatezza dell'evento, non è scontato che i nostri interessi in Libia siano a rischio. Chi lo sostituirà difficilmente rinuncerà a far affari con un partner strategico come l'Italia. In caso di resilienza del regime, forse Gheddafi punirà marginalmente gli occidentali che l'hanno criticato in queste settimane e il nostro paese non farà eccezione. Il Colonnello ha già minacciato di sostituire tout court le compagnie occidentali con partner cinesi e indiani, ma non credo sarebbe così semplice andare sino in fondo.
Se consideriamo lo scarso spazio di manovra, nel complesso non mi sento di addebitare particolari mancanze al nostro governo nella gestione della crisi. Aldilà di alcune leggerezze e sottovalutazioni iniziali, la nostra diplomazia ha adottato un atteggiamento prudente e accorto e non ha esposto il paese a gravi ritorsioni politiche e commerciali. Il nostro status di media potenza, in un mondo in cui questa dimensione è sempre meno sufficiente, non ci concede molto di più.
Rimanendo al nostro paese, non ritiene avvilente il fatto che il dibattito interno si sia concentrato quasi esclusivamente sui rischi di un'invasione migratoria e abbia trascurato una valutazione strategica di ampio respiro?
E' una visione limitata, ma in fondo comprensibile. La politica italiana si concentra sui flussi migratori perché è una materia sulla quale ha margini per intervenire, sia in termini di accoglienza che di successivo controllo. Dobbiamo anche considerare la natura del dibattito politico, che tradizionalmente si gioca sulle differenze, sulle fratture fra le posizioni dei vari contendenti. Si tratta inoltre di un argomento che interessa l'opinione pubblica, dove convivono e si sovrappongono sentimenti compassionevoli verso i profughi e vere e proprie fobie rispetto alla temuta invasione di migranti provenienti dalla sponda sud del Mediterraneo. Rimanendo agli umori della pubblica opinione, mi auguro che l'Unione Europea si impegni concretamente, offrendo soluzioni condivise in tema di politiche di controllo dell'immigrazione e dell'accoglienza. Altrimenti il cittadino italiano avrà un motivo in più per porsi delle domande e per lagnarsi dell'inerzia della Ue.
Torniamo allo scenario nordafricano. Nelle rivolte di queste settimane il peso del fondamentalismo islamico sembra limitato. Piuttosto, la massa dei manifestanti avanza richieste di riforma riconducibili al modello occidentale. E' possibile parlare di un arretramento dell'estremismo?
Il fondamentalismo non riesce ad affermarsi nei momenti di apertura pluralistica delle società arabe. Il richiamo dell'islamismo militante è invece più efficace quando deve confrontarsi con regimi chiusi, come gli Stati patrimoniali e autoritari che hanno retto per molti decenni il Medio Oriente. Negli ambienti chiusi per anni al dissenso il verbo islamista ha fatto proseliti opponendosi a regimi corrotti e autoreferenziali, ma ora che il sistema sembra aprirsi a diverse proposte politiche esso patisce la concorrenza e vede indebolito il suo appeal. Vi sono quindi buone ragioni per ritenere che il crollo di Ben Ali, Mubarak e (forse) di Gheddafi non aprirà la strada all'affermazione di teocrazie e di emirati qaedisti.
Quanto sta avvenendo rivaluta le posizioni espresse da George W. Bush e dai suoi consiglieri neocon all'indomani dell'11 settembre 2001, quando sostenevano che il fondamentalismo islamico era destinato a rafforzarsi in assenza di un'evoluzione in senso democratico dei regimi mediorientali, anche se amici dell'Occidente. Una posizione criticata e sbeffeggiata, in nome di un conservatorismo culturale intriso di realismo (o meglio di cinismo) assai diffuso negli Stati Uniti e in Europa. Una posizione all'epoca rifiutata anche dai regimi dell'area, in particolare dall'Egitto di Mubarak.
Oggi, a dieci anni di distanza, scopriamo che l'analisi dell'amministrazione Bush conteneva elementi di correttezza. Se è vero che l'occupazione dell'Iraq con l'intento dichiarato di esportarvi la democrazia ha comportato costi inaccettabili, è altrettanto evidente il fallimento della moral suasion esercitata dagli occidentali sui regimi arabi amici per indurli alle riforme. L'esito rivoluzionario a cui assistiamo è la logica conseguenza di quel fallimento. Siamo di fronte a un processo promettente che si è tuttavia sviluppato dall'interno e rispetto al quale abbiamo poche chance di incidere.
Crede che la bolla alimentare abbia avuto un ruolo nell'accelerare i tempi del sovvertimento nel mondo arabo?
Penso di sì. Le rivolte hanno avuto inizio anche perché troppe sono ormai le persone ridotte alla fame, o quasi. La crisi economica globale, la difficile ripresa e l'aumento dei prezzi dei beni alimentari non hanno più consentito ai governi di acquietare le popolazioni con la ridistribuzione dall'alto delle risorse. Non si è trattato di movimenti di élite, ma di sollevazioni di masse esasperate e ridotte allo stremo. Questo spiega i successi delle rivolte e l'impossibilità di contenerle.
La pubblicistica internazionale ha evidenziato come le sollevazioni arabe siano state accolte con un certo timore in Cina. Il governo di Pechino ha cercato di ostacolare la diffusione delle notizie in proposito. Paura di un contagio?
La reazione delle autorità della Repubblica Popolare mi sembra in linea con il passato. I vertici cinesi non gradiscono i cambiamenti tumultuosi e temono che i dissidenti interni possano trarne incoraggiamento. Voglio soffermarmi sul ruolo di internet e dei social network, strumenti sicuramente importanti per aggirare la censura, in Maghreb come in Cina. Tuttavia, è semplicistico celebrare "Le rivoluzioni di Facebook". Le dinamiche all'origine di un rivolgimento sono molto più complesse e richiedono un'analisi molto più accurata.
Restando alla Cina, non vi sono i segnali per un'evoluzione paragonabile a quanto sta succedendo altrove. Stiamo discutendo di un paese dove la componente giovanile è in percentuale più ridotta rispetto al mondo arabo e può contare su prospettive esistenziali e lavorative migliori. I ragazzi cinesi possono pensare di avere un futuro soddisfacente, i coetanei maghrebini molto meno. Nel mondo arabo la combinazione di conservatorismo politico e immobilismo socio-economico intrappola le giovani generazioni in un limbo senza speranza e senza prospettive. L'ambiente cinese, tutt'altro che liberale, premia maggiormente il dinamismo e consente di avere prospettive di vita soddisfacenti. Pertanto, almeno per il futuro prevedibile (due decenni), a Pechino la stabilità politico- sociale dovrebbe essere garantita. (Intervista a cura di Fabio Lucchini)