"NE' ROSSE, NE' NERE: SONO TOGHE GIALLE".
Formica, i giudici da Ordine a corporazione
Il colore politico delle correnti dei giudici è secondario rispetto alla attuale chiusura corporativa della magistratura. Come volevano Calamandrei e Togliatti, nel CSM serve parità tra Parlamento e Ordine
Critica Sociale, marzo 2011,
Il tema della giustizia è talmente vasto che ogniqualvolta si affronta la questione, sia pure in astratto, ognuno conduce questa astrazione alla concretezza della vita vissuta.
"Il cittadino si imbatte con la giustizia perché il bisogno di trovare un punto di equilibrio nelle controversie non trova altro luogo di ricomposizione se non nel ricorso alla giustizia: si tratta di vicende minime, dal condomino all'occupazione di uno spazio, all'incidente stradale, insomma il ricorso alla giustizia è il ricorso definitivo dei conflitti quotidiani, anche dei più piccoli".
Naturalmente le questioni che emergono quando si affronta il tema della giustizia, riguardano anche gli alti costi che si debbono sostenere, soprattutto da parte dei ceti più deboli. Tutto questo appartiene alla dinamica della società.
Per Rino Formica, che è intervenuto nell'ultimo periodo con una accentuata frequenza in occasione della Riforma costituzionale della Giustizia, di cui ha criticato il fatto che sia stata presentata dal governo e non in Parlamento, "il dato socialmente rilevante nel rapporto con la Magistratura, ciò che crea il maggiore turbamento, è l'incognita se ci si troverà di fronte al "giudice giusto".
"Per affrontare la vera questione della giustizia - sostiene - occorre procedere con un metodo di distinzione logico-razionale degli aspetti prioritari: ci sono problemi di efficienza, ci sono problemi di durata dei processi, ci sono problemi di norme da adeguare ai mutamenti costanti della società, problemi di collegamento tra diritto nazionale e diritti di altri paesi, ecc. La sua stessa natura rende la giustizia ricca di problemi che non possono essere considerati risolti in assoluto una volta per sempre, ma necessita di correzioni ed aggiustamenti".
Recentemente è stato proposto un appello (sottoscritto anche dalla Critica Sociale) perché la sinistra non sia più pregiudizialmente ostile a discutere finalmente del tema della Giustizia in presenza della Riforma costituzionale presentata dal Governo.
"L'appello affronta una questione giusta in forma insufficiente ed alquanto elusiva.
Conosco l'onestà intellettuale e la serietà e coerenza sul punto dei tre proponenti, ma ritengo che il loro invito resterà una esortazione perché non incide su le ragioni politiche che impediscono alla sinistra ufficiale di uscire dal "voglio ma non posso".Questa sinistra subisce da venti anni l'espansione politica del potere giudiziario. Alla sinistra non riuscì il tentativo maldestro di piegare la maggioranza della magistratura alle sue direttive e si rassegnò a subire il potere della corporazione. Errore fu quello di voler piegare la magistratura ed errore simmetrico è quello della magistratura che vuole piegare la politica considerata capace di produrre metastasi istituzionali. La rottura dell'equilibrio paritario tra Parlamento e togati nel CSM, come avevano ben visto i costituenti, da Calamandrei a Togliatti, da Dossetti a Ruini, da Targetti a Rossi, ha dato vita alla repubblica dei giudici. In uno Stato di diritto, se una corporazione domina l'insieme tutto regredisce sino alle primitive regole delle tribù. L'appello evita di affrontare la questione della ineguale struttura del CSM perché la sinistra alla quale si rivolge è affaticata, debole e subalterna.
Tra il '92 ed il '97, fu modificato il confine tra potere politico rappresentativo ed ordine giudiziario. La rappresentanza elettiva ebbe la legittimazione popolare ma fu circondata da crescente discredito. L'ordine giudiziario non ebbe mai il formale consenso popolare, ma vide crescere intorno a sé la tolleranza dinanzi al suo sconfinare nell'esercizio di fatto del potere politico. Dal '97 ad oggi il prestigio della politica non è cresciuto, ma si è anche affievolito il riconoscimento popolare al graduale e progressivo espansionismo politico dell'ordine giudiziario. Ecco dove è la ragione del blocco istituzionale. La magistratura ha invaso il terreno della politica ma è senza scettro anche se può fare del male. La politica è senza la spada, anche se può minacciare. Una stagnazione ribollente può durare, ma a lungo andare prepara il terreno della rivolta istituzionale. Tornare alla saggezza dei costituenti del 1946, trascurando gli adattamenti dei costituenti di fine 1947, è il terreno sul quale può avvenire il dialogo tra politica e magistratura. Questo è l'appello che mi sentirei di sottoscrivere. Il resto è esercizio muscolare che annuncia tempi oscuri".
Cosa accadde allora?
"Quando si decise come intitolare il Titolo IV della Costituzione, ci fu una accesa discussione: ci furono i sostenitori dell'intitolazione "La Magistratura", che indicavano l' intenzione di affrontare l' argomento così come nel Capitolo III, cioè come tema specifico, ma sempre relativo alla Pubblica Amministrazione per regolarne l'attività nel quadro dell' equilibrio dei poteri dello Stato. Ci fu chi ritenne di mettere invece un titolo più vasto, per affrontare nel suo complesso il tema della "Giustizia". E ci furono infine coloro che sostennero doversi intitolare,"Il Potere giudiziario".
Passò la soluzione di mettere il titolo: "La Magistratura". Quindi non la "Giustizia", per codificare una grande aspirazione umana, ma "Magistratura" per la regolamentazione di una "attività umana". E si escluse che dovesse essere un "potere". Le proposte avanzate dai costituenti Mastino e Persico di intitolare il capitolo "Potere giudiziario" furono accantonate.
Cosa si voleva stabilire, quindi, nel momento in cui si escludeva che la Magistratura fosse un "potere"? Si fissò nell'articolo 101, il primo del Titolo IV, che la giustizia è amministrata "in nome del popolo" e che i giudici sono soggetti "soltanto alla legge". Questo articolo 101 va letto in connessione con l'articolo 1: la Sovranità appartiene al popolo che la esercita secondo le forme e i limiti della Costituzione, ossia attraverso le leggi nel rispetto delle norme costituzionali.
Quindi c'è una connessione tra la Sovranità popolare e la Magistratura che non è un potere, perché non discende dalla sovranità popolare, e pertanto non ha un potere autonomo rispetto agli altri poteri costituzionali. E' una connessione in cui l'incontro tra la Politica (che è l'espressione della sovranità popolare attraverso gli strumenti della dialettica democratica) e la Magistratura, diventa il punto essenziale.
I costituenti discussero dell'autonomia della magistratura, e non ci fu nessuno che ritenne che la magistratura non dovesse essere autonoma o che dovesse dipendere gerarchicamente da qualche potere, né dall'esecutivo, né da alcun altro potere. Avrebbe dovuto deliberare in assoluta autonomia e libertà.
E qui sta il punto cruciale per ciò che intendiamo costituzionalmente per "autonomia" della Magistratura. Perché essendo l'amministrazione della giustizia un' "attività umana" - e non un' attività divina - essa è esercitata dagli uomini, i quali possono agire al massimo "ad immagine e somiglianza" del divino, ma senza esserlo e quindi mai infallibili, con tutti i limiti di ciò che è umano rispetto all' "universalmente giusto". Dunque "autonomia" nel vigilare, controllare, giudicare su qualcosa, come la Giustizia, che supera la sfera dell'umano, è tuttavia svolta nei limiti propri dell' agire umano, e necessita quindi di una istituzione nella quale si ricomponga un equilibrio tra sovranità popolare e ordine giudiziario".
Si tratta appunto del CSM.
"Il punto di equilibrio si raggiunse attraverso l'idea che l'organo di controllo fosse paritario tra espressione del potere democratico, della sovranità popolare (quindi articolo 1) e un riconoscimento dell'autonomia della Magistratura (art. 101): parità nella composizione del CSM tra rappresentanza di origine parlamentare e rappresentanza dell'ordine giudiziario. Questo è il punto decisivo sul quale avvenne la composizione anche delle normative successive, tra le quali quelle relative all'interpretazione della distinzione delle funzioni tra magistratura inquirente e magistratura giudicante, così come quelle relative a come interpretare la giusta norma dell'obbligatorietà dell'azione penale.
In materia di giustizia non bisogna avere preconcetti, perché la sua amministrazione è un campo soggetto al continuo trasformarsi delle dinamiche sociali.
Del resto la tesi dell'interpretazione dinamica della legge è sempre stata presente nella cultura socialista. Proprio negli anni '60 fu l'iniziativa socialista che sviluppò nel dibattito politico la necessità che il magistrato non giudicasse in termini cristallizzati, ma interpretasse le norme in relazione alla situazione sociale. Magistratura Democratica nasce da un'iniziativa dei socialisti; i "pretori d'assalto" erano nelle commissioni giustizia del partito socialista. Quindi non ci facciamo velo. Non siamo contrari all'autonomia della magistratura.
Ma cosa avvenne nella fine di vita dell'Assemblea costituente. Perché fai differenza tra i costituenti del '46 e le conclusioni del '47?
Nel novembre del 47, pochi giorni prima della chiusura dei suoi lavori, questo equilibrio fu rotto con l'"emendamento Scalfaro". Questo emendamento prevedeva la composizione del CSM in "due terzi/un terzo" nel rapporto tra toghe e rappresentanza parlamentare, e trovò l'opposizione della parte più dinamica della Costituente, tra cui i democristiani Dossetti, Moro, La Pira, Perassi, i socialisti, i comunisti, i liberaldemocratici, compreso il presidente della Commissione dei 75, Meuccio Ruini. Vi fu una votazione tormentata ed incerta che diede al blocco conservatore la maggioranza, con un'assenza del 40 per cento dei parlamentari costituenti, che furono presenti al voto in 315-320 su 556 eletti.
Con questo emendamento veniva depotenziata anche la funzione di arbitro del Presidente della Repubblica, che presiede il CSM divenuto ormai un organismo con una maggioranza precostituita, peraltro formata da una corporazione.
Nei primi 20-25 anni di applicazione della Carta costituzionale, l'"emendamento Scalfaro" favorì la maggioranza dei togati di ispirazione conservatrice. La dinamica sociale successiva, dopo il centro sinistra degli anni '60, gli scontri politici, il terrorismo, l'acutizzarsi delle lotte sociali e democratiche nel Paese, naturalmente influì nella formazione della nuova generazione dei magistrati.
Ma con questo non si può dire che ci fu un passaggio dalle "toghe nere" dei conservatori, alle "toghe rosse" dei magistrati di nuova generazione: tutto questo sarebbe stato assorbito all'interno di una rappresentanza paritaria. Con la rappresentanza maggioritaria delle toghe rispetto ai "laici", invece, la rappresentanza dell'ordine non fu più quella di un particolare colore interno alla corporazione, ma è la rappresentanza della corporazione ispirata dalle sue tendenze prevalenti: essa non privilegia "toghe nere" o toghe rosse", ma la corporazione, le "toghe gialle". Che possono essere in alcuni momenti di tendenza conservatrice o ribellistica".
Il "colore" diventa secondario rispetto al sistema complessivo dei rapporti tra poteri?
"Sono rimasto colpito da una cosa, questa sì veramente incostituzionale: assegnare alla Magistratura un potere politico "di fatto", quando i costituenti non vollero mai, nemmeno e soprattutto nel titolo del Capitolo relativo a questa materia, prescrivere un "potere giudiziario", ma vollero scrivere "ordine". E un "ordine" è qualcosa che sta all'interno di un sistema, l‘ "ordine" non ha una sua autonomia di potere, ma è all'interno di un più vasto potere che è il potere democratico. L'ordine non è una sorgente. Sta in un equilibrio delicato basato sul principio "di essere rispettato, purché rispetti".
Perché questo nodo non viene fuori?
Perché la discussione si è appassionata su questioni tecniche che sono risolvibili. La questione dell'obbligatorietà della azione penale da cosa nasce, se non dalla circostanza del sovraccarico di domande di giustizia non più gestibile dalla magistratura? Allora ci vuole qualcuno che dia un ordine a queste domande. Ma questo non può essere dato in modo "assoluto" da chi è ormai un potere politico autonomo di fatto. L'ordine alla domanda di giustizia deve essere stabilito all' interno di un potere democratico, non autonomo e assoluto.
La stessa separazione delle carriere, se funziona bene o meno dopo un periodo di prova, è tutta materia discutibile e risolvibile. Anche la responsabilità civile dei magistrati è risolvibile, perché nessun giudice lo può essere in modo assoluto: andremmo a ferire il principio del "libero convincimento" che ogni giudice deve avere. Se si dovesse decidere sulla base di "tabelle" prestabilite, per reati e controversie civilistiche, non ci sarebbe nemmeno bisogno del giudice. Il problema del giudice è il suo comportamento, non il suo convincimento. Se cioè un organo disciplinare equilibrato, composto in modo paritario dal potere democratico e dalla rappresentanza giusta dei togati, possa stabilire se un comportamento isolato o continuato di un giudice sia ispirato da tendenze estranee alle norme del diritto.
A me ha fatto impressione il fatto che nell'ANM, quando si è discusso su che comportamento avere nei confronti della Riforma della giustizia, si è ricostituita una unanimità che non c'è nella Giunta esecutiva dell'Associazione, dove Magistratura indipendente è all'opposizione. In quella circostanza, proprio il rappresentante di quella componente moderata, il magistrato Ferri, ha sostenuto la necessità che la corporazione fosse unita, e ha portato come argomento fondamentale proprio il pericolo che lo squilibrio all'interno del Consiglio Superiore della Magistratura non verrebbe più tutelato, con la Riforma, a vantaggio della corporazione medesima.
Sorge cioè un problema che non deve essere risolto dall'Associazione nazionale della Magistratura: ogni corporazione ed ogni ordine che si rispetti tende a tutelare l'espansione del proprio potere. Oggettivamente. Perché, oltre alla finezza dell'interpretazione della norma, interviene un potere reale che consiste non nel giudicare se stessi, ma nel giudicare gli altri".
Quindi la questione è tutta squisitamente politica?
Qui sta il punto dirimente per comprendere la situazione politico-storica che si è creata tra il 1990 e il 1997. Nella Bicamerale si cercò di scalfire una serie di eccessi attraverso la "bozza Boato", ma si ridusse in maniera simbolica, e aggiungerei ridicola, la composizione del CSM da "due terzi/un terzo", in "tre quinti/due quinti".
Tra il '90 e il '97, l'indebolimento del potere politico è stato così violento che permane ancora, e attraverso ulteriori circostanze si è aggravato, con leggi elettorali maggioritarie che hanno introdotto elementi di squilibrio e inquietudine. Nel CSM l'equilibrio basato sul principio di parità tra ciascuna delle due rappresentanze, togate e laiche, si formava sulla rappresentanza proporzionale. Oggi invece abbiamo una tendenza alla trasformazione delle minoranze in maggioranze: minoranze elettorali che diventano maggioranze parlamentari, minoranze attive della corporazione che diventano tutrici della totalità della corporazione. Il discredito della politica che permane e si diffonde, non consente di affrontare con autorevolezza il problema del primato della rappresentanza popolare. Questo porterà alla conseguenza che le corporazioni si faranno partito a sé. Superando il partito politico. Del resto, questo non è solo il caso della Magistratura. E' anche il caso dell'informazione, che è diventata potere politico. Nel mondo dell'economia c'è un potere che non è più nella Confindustria. Chi guida la danza sono due-tre grandi imprese. Nel campo del credito, sono due-tre grandi banche che, avendo incroci di interessi internazionali, sono in condizioni di poter fissare persino le politiche del credito.
Oggi la politica può solo fare interventi di natura"ex post" solo quando vi sia una emotività pubblica che esplode. Se si guarda al piccolo caso Parmalat, mi stupisco dello stupore, perché sono vent'anni che c'è shopping straniero nelle aziende italiane. Nessuno se n'è interessato sino ad oggi. O la politica recupera iniziativa sulle grandi questioni di squilibrio dei poteri, o altrimenti siamo destinati a una corporativizzazione selvaggia di qualsiasi attività umana".
Un risultato anti-nazionale nel 150esimo anniversario dell'Unità d'Italia. Paradossale.
"Certo. E' una tendenza anti-nazionale: questa è la vera secessione, non il federalismo fiscale".
Se il magistrato, nell'attuale squilibrio all'interno del CSM (a suo vantaggio rispetto alla rappresentanza parlamentare), diventa attraverso l'interpretazione della legge lui stesso fonte del diritto, non ci troviamo nella situazione capovolta in cui la magistratura diventa la effettiva titolare della sovranità, essendo la corporazione sempre in maggioranza nel CSM, ovvero nell'organo di controllo? Infatti essa può sempre stabilire in ultima istanza una norma extraparlamentare prevalendo nell'organismo di autogoverno in merito ai comportamenti che fondano questo tipo di norme. Leggi entro cui soltanto la "sovranità popolare" si può manifestare, e alle quali esclusivamente il magistrato è tenuto a rispondere. Non è un sovvertimento costituzionale?
La domanda è esatta, ma bisogna prima cercare di capire un'altra cosa: ovvero, dal 1948 al 1992, queste norme come hanno funzionato? Hanno funzionato bene, perché la forza, il prestigio e l'autorevolezza della politica, della rappresentanza politica, del Parlamento, dei partiti politici (sia di maggioranza che di opposizione), obbligavano tutte le componenti attive della società a trovare forme di collaborazione.
Quando i magistrati oggi invocano il potere politico, affermano che la magistratura ha dato nei decenni un tributo di sangue nella lotta contro il terrorismo e la criminalità. Ma è proprio questo che dimostra come vi era una collaborazione tra politica e magistratura: non c'è stato alcun caduto nella magistratura durante la lotta alla corruzione politica. Pur avendo messo sotto tiro la politica, i magistrati non sono morti, i morti sono stati tra gli indagati. Dunque come i magistrati hanno titolo a dire, giustamente, che nella lotta al terrorismo e la criminalità hanno condotto una lotta eroica e sanguinosa, cosa verissima, proprio per questo le morti vere di persone, di partiti, di forze politiche, di aziende, di interessi, dimostrano che c'è stato uno squilibrio di ingiustizia da parte della magistratura. L'argomento del "tributo di sangue" è vero in entrambi i sensi, e non solamente a senso unico. C'è un censimento da fare: un errore giudiziario fa molto più danno di qualunque ingiustizia politica. L'ingiustizia politica è sanabile con la lotta democratica. Aggiungo poi la notazione che il vuoto tra politica e interessi legittimi porta un vulnus anche all'interno degli stessi interessi legittimi. L'equilibrio politico democratico serve anche al complesso delle corporazioni e degli interessi, perché evita che siano essi stessi preda di tendenze minoritarie. Perché sono le minoranze attive che creano il patriottismo antidemocratico di gruppo. Ma prevalgono anche all'interno della corporazione e la sottomettono". (Intervista a cura di Stefano Carluccio)