In Europa i problemi delle minoranze vengono in parte risolti e in parte contemperati dagli ordinamenti democratici. Questo non deve condurci a conclusioni affrettate: non č detto che esportare la nostra democrazia risolverŕ il problema delle minoranze nel mondo arabo in transizione. Dobbiamo incentivare le democrazie degli altri. L’Occidente deve comprendere bene quello che sta accadendo in Nordafrica se vuole davvero aiutare la nascita delle giovani democrazie arabe
Critica Sociale, aprile 2011,
A Franco Cardini, eminente studioso e professore ordinario di Storia medievale all'Università degli Studi di Firenze, tocca l'onore e l'onere di concludere i lavori del Convegno internazionale "Minoranze etniche e religiose nel Mediterraneo", organizzato dal Cipmo a Torino. A margine del suo intervento, il professor Cardini ha concesso un'intervista alla Critica Sociale. Noi tutti siamo minoranze, ha esordito Cardini in plenaria. Prendete il caso dell'Alto Adige/Südtirol. I nostri concittadini sudtirolesi sono minoranza in Italia, mentre in Sud Tirolo lo sono i cittadini di lingua italiana. Una situazione complicata che però non si è risolta in una ghettizzazione, anche se piccole tensioni permangono. Come sappiamo, in pieno clima di celebrazioni dell'unità nazionale, il presidente della provincia autonoma di Bolzano, Luis Durnwalder, ha sollevato dubbi sull'italianità della sua gente. Ciononostante, non si può negare che la questione sia stata sinora gestita in maniera felice, quando l'Europa è piena di problemi acuti, dalla Spagna alla Finlandia.
In Europa i problemi delle minoranze vengono in parte risolti e in parte contemperati dagli ordinamenti democratici. Questo non deve condurci a conclusioni affrettate del tipo: "Esportare la nostra democrazia risolverà, o quantomeno affievolirà, il problema della minoranze anche nel mondo arabo in transizione".
Come ha sostenuto Amartya Sen, dobbiamo, al limite, incentivare e incoraggiare le democrazie degli altri. L'Occidente deve comprendere bene quello che sta accadendo in Nordafrica per evitare errori e per aiutare davvero le giovani democrazie che succederanno (me lo auguro) alla primavera araba. La primavera araba è difficilissima da capire. Non è certo una primavera di al-Qaeda, come ha cercato di far credere il Colonnello Gheddafi, ma nemmeno la primavera di Facebook. Qui ritorna utile il concetto di minoranza. Il popolo di Facebook è una minoranza in Italia, in Europa e nell'Occidente tutto. Figurarsi nei paesi arabi, dove esiste un alto tasso di analfabetismo, soprattutto informatico-telematico! No, le cose sono molto più complesse, vi è una radice soprattutto sociale, di disagio vero, ignorato per anni sia dagli autocrati mediorientali sia dai loro alleati.
Mettiamoci in testa che siamo tutti minoranze, ribadisce Cardini. In questo convegno si è parlato di minoranze etniche e religiose, ma la questione è più ampia. Vi sono infiniti modi di essere minoranza e infiniti modi, come minoranza, di essere conculcati. Vi sono le minoranze sessuali discriminate, ma anche le minoranze sociali infinitamente ricche o povere. In realtà, in un modo o nell'altro, ciascuno di noi, nell'angolo più nascosto del suo cuore o della sua mente, fa parte di una minoranza. Come detto per il Sud Tirolo, coloro che sono maggioranza in luogo possono essere minoranza altrove. E' un paradosso solo apparente e non interessa solo gli ebrei, che sono maggioranza soltanto in Israele.
Davanti a questo mosaico complesso, gli opposti estremismi dell'assimilazionismo e del multiculturalismo stanno fallendo. Invece, il problema richiede di essere affrontato attraverso una rete capillare di strategie interculturali. Io non credo nella pace, non credo nell'amore, non credo nella tolleranza più di quanto non ci creda qualunque persona normale che abbia avuto un'educazione cattolica e/o occidentale. Tuttavia, ho una deformazione professionale come insegnante: credo nella conoscenza contro l'ignoranza, che genere paura, antipatia e odio verso l'altro. La conoscenza è la sintesi futura a cui bisogna puntare a tutti i livelli. Ci vorrà tempo. Lo vedo nella città di Prato, dove risiedo. La conflittualità con la grande comunità cinese è forte, ma noto già segnali di avvicinamento tra le giovani generazioni. Diamo tempo al tempo: sul piano tattico sembrano vincere coloro che vogliono il conflitto, ma sul piano strategico, se non si commetteranno errori formidabili, vincerà il dialogo.
Del resto, il Mediterraneo è sempre stato questo, un luogo d'incontro e gli incontri qualche volta si fanno anche armi alla mano e diventano scontri. I conflitti di civiltà non esistono, però esistono i conflitti nazionali, i conflitti di competenza, i conflitti di interesse e i conflitti dettati dal pregiudizio.
Il Mediterraneo, come sosteneva il grande storico Fernand Braudel, è un continente liquido, un luogo dove la gente si incontra e si scontra; dove la dea Iside, San Giorgio e al-Qader sono stati oggetto di venerazione; dove i poveri pescatori e contadini calabresi si facevano musulmani per diventare gran visir o rais delle flotte corsare algerine; dove Maria viene alternativamente considerata come la madre del Signore o del Profeta Gesù. Questo è l'equilibrio della nostra storia mediterranea.
Bisogna cominciare a spiegare meglio, a studiare meglio e a imparare meglio la storia del nostro Mediterraneo perché esiste un'identità mediterranea, e come tutte le identità è imperfetta. L'identità, come tutte le tradizioni serie, è dinamica e cambia con le generazioni. L'identità non è data una volta per sempre, ma cambia a contatto con le identità altrui. Prendere atto della nostra "mediterraneità" non ci impedirà di essere anche buoni europei, come non impedirà agli arabi e ai berberi di essere anche dei buoni africani.
Siamo in un mondo che muta, che va affrontando sfide difficilissime. Il processo di globalizzazione è arrivato a un punto tale per cui il 20% della popolazione gestisce il 90% delle ricchezze, mentre i quattro quinti del mondo vivacchiano sul rimanente. La grande novità è che, grazie ai mezzi tecnologici, questo dato obiettivo è diventato di comune conoscenza, anche nel più sperduto villaggio africano. Quando una simile ingiustizia diviene di dominio pubblico è difficile che possa perpetuarsi in eterno. Pertanto, se si vorranno evitare durissimi conflitti, la vera sfida del futuro sarà quella di ripartire con maggior equilibrio, o con minore ingiustizia, le ricchezze del pianeta che si vanno assottigliando. Una grande sfida che si vincerà anche liberando e rendendo meno aspra l'esistenza delle tante minoranze oppresse.
Professor Cardini, alla luce di quanto detto, come valuta i rivolgimenti che stanno avvenendo lungo la sponda Sud del Mediterraneo?
Stanno succedendo delle cose che sono difficili da leggere e che, per quanto ne sappiamo noi, interessano tutto il mondo arabo, dal Maghreb fino alla Siria e alla Giordania. Cominciamo col dire che noi siamo male, inegualmente e disomogeneamente informati. Per esempio, dall'informazione delle ultime settimane è scomparso un paese come il Marocco, dove pur esistono degli elementi di protesta e di effervescenza che sono stati sinora contenuti. Il Marocco vive inoltre una situazione di tensione con la Mauritania e permangono dispute nell'area intorno alla questione dello sfruttamento dei fosfati. Dalle cronache è quasi sparita l'Algeria, un paese dove vent'anni fa si è verificato un evento epocale che molto dovrebbe insegnare al mondo occidentale. All'epoca, il Fronte Islamico di Salvezza (Fis) aveva vinto le elezioni; erano state elezioni libere e corrette, ma aveva prevalso una parte che secondo noi, buoni democratici occidentali, non avrebbe dovuto vincere. E' un po' quello che sta avvenendo in Egitto: siamo per la democrazia, ma l'ipotesi che possano prevalere democraticamente i Fratelli Musulmani ci inquieta non poco, anche se pare abbiano posizioni più moderate rispetto al passato.
"Primavera araba" e "Rivoluzioni di Facebook" sono termini abusati. Il malessere in Egitto esiste da tempo. Gli operai dell'area di Damietta erano in sciopero da anni e noi tutti sapevano che il governo "moderato" di Mubarak non era certo democratico. Le stesse amnesie hanno colpito molti in riferimento a Gheddafi. Ora, considerando le risorse petrolifere dell'area, tutto è cambiato. I dittatori son tornati a essere dittatori.
Con la significativa eccezione della Siria, per quale motivo l'Occidente ha sinora appoggiato tutti i governi che in un modo o nell'altro sono coinvolti o sono stati addirittura travolti dalla cosiddetta primavera araba? Perché, aldilà del petrolio, quei governi hanno tenuto un atteggiamento moderato in politica internazionale, inclusa l'accettazione dello status quo nei confronti di Israele. L'Egitto di petrolio ne ha poco però è confinante con Israele, in particolare con al Striscia di Gaza. Quindi è presumibile che la Nato vigili con attenzione sugli esiti della rivoluzione in quel paese, trovando un prezioso alleato nell'esercito egiziano, i cui alti ufficiali sono allevati da anni dalle scuole militari americane.
Diverso il caso tunisino, che sembra interessarci meno. La Tunisia è un piccolo paese che non produce petrolio, ma vive di pesca e di turismo e può anche diventare un laboratorio politico. I nuovi leader dovranno muoversi con prudenza come stanno facendo gli islamisti locali. Un atteggiamento che li accomuna ai Fratelli Musulmani egiziani e ai gruppi analoghi attivi a Bengasi. Sembra quasi che tutti vogliano rassicurare la comunità internazionale sospettosa sulle loro reali intenzioni. Siamo tornati alle enunciazioni di Hassan al-Banna (fondatore nel 1928 dei Fratelli Musulmani, ndr), che sosteneva sia la necessità di convivere con l'Occidente sia l'urgenza che l'Islam trovasse una sua cifra per gestire la cultura occidentale, islamizzandola.
Spostiamoci sulla sponda Nord. Viviamo una nuova ondata di allarmismo riferita alla marea umana che molti temono possa invadere l'Italia e l'Europa. Nel frattempo, sta montando una grossa controversia all'interno dell'Unione. I paesi (come l'Italia) più esposti ai flussi migratori da Sud chiedono a gran voce la solidarietà europea nella gestione della crisi. Una richiesta che rischia di rimanere inevasa. Qual è il suo parere?
Ho settant'anni e sono un convinto europeista. Pensavo che l'Europa sarebbe arrivata a creare una vera e propria unione sovranazionale. La storia della Germania e della Francia non è quella dell'Alabama e nemmeno quella del New England e della California, lo so benissimo, però speravo che saremmo riusciti a creare gli Stati Uniti d'Europa, in un modo o nell'altro. La brillantezza con cui è stato risolto il problema altoatesino dava da pensare che sarebbe arrivato un momento in cui i paesi d'Europa avrebbero avuto un governo centrale. Invece, ci siamo accontentati. O meglio, i poteri forti europei si sono accontentati di Eurolandia, rinunciando alla politica estera unitaria, all'esercito comune e via di seguito. I governi europei sono tacitamente d'accordo di demandare la loro sicurezza a una potenza esterna, gli Stati Uniti. Questa è la verità.
L'Europa esiste a livello di Eurolandia, di organismo burocratico che sistema o che pretende di risolvere una quantità di problemi di natura economica, commerciale e tecnologica (di convivenza socio-economico-produttiva), però non esiste come compagine politica. Se esistesse come compagine politica, il problema si risolverebbe perché non è poi così grave. Le migliaia di persone che arrivano sono un intollerabile problema per Lampedusa, un grosso problema per la Sicilia, un discreto problema per tutta l'Italia, ma sarebbero un problema abbastanza irrilevante per l'Europa. A patto che esistesse un'autorità in grado di gestire la situazione in modo equo.
Ritiene dunque che l'Europa tutta debba farsi carico della situazione attuale?
Evidentemente, vi sono aree più sofferenti perché più esposte, ma non possiamo cambiare la geografia. La Tunisia sta di fronte alla Sicilia non alla Finlandia. D'altra parte, chi non ha questi problemi in termini di affrontamento immediato deve collaborare, deve farsi carico di altri aspetti: sul fronte economico e dell'integrazione culturale.
Insomma, quel che è certo è che non si può continuare a fare concentramenti a Lampedusa o a Manduria, anche perché vi è il rischio di creare veri e propri campi di prigionia. Come toscano, sono rabbrividito quando hanno fatto il nome di Coltano per concentrare gli immigrati. E' un nome maledetto: a Coltano ancora nel '46-'47 moriva la gente di tubercolosi. Era un campo di concentramento nel pisano che raccoglieva repubblichini (anche giovanissimi) e collaborazionisti dei tedeschi. Anche se è chiaro che i tempi sono cambiati e le circostanze di allora non possono ripresentarsi, non si devono ricostituire i campi di prigionia. Servono concentrazioni il più possibile piccole che siano non assorbibili ma piuttosto integrabili con le comunità circostanti. Li dobbiamo dislocare, dobbiamo cercare di renderli "meno altri" rispetto alla popolazione italiana.
E' vero, c'è chi fa propaganda, che dipinge le migliaia di persone in fuga dal Nordafrica come barbari che ci vorrebbero islamizzare. Tuttavia, nel concreto, la gente non ragiona in questi termini, come si è dimostrato nei confronti degli ebrei in tempo di guerra. La gente non tende a respingere i suoi simili in difficoltà. Tende a farlo quando gli si mostra l'altro come diverso e minaccioso. Serve un cambiamento nella mentalità, in tutta Europa, altrimenti veramente l'Ue non serve. Gli italiani sono in prima linea perché si affacciano sul Mediterraneo e gli altri paesi ci devono aiutare.
Il tempo stringe, l'afflusso di immigrati continuerà, aumenterà il malumore dei profughi e la paura degli italiani. Coloro che sono scappati dal centro di Manduria non penso avessero intenzioni malvagie ma hanno terrorizzato la popolazione per il semplice fatto della loro presenza, del loro aspetto, della loro condizione disperata. E' normale che la gente abbia paura. Per evitare situazioni del genere è necessario investire, nonostante la penuria di risorse denunciata dal nostro governo. Siamo nel bel mezzo di un'emergenza? Cerchiamo di utilizzarla al meglio nella consapevolezza che nei prossimi anni le cose andranno sempre peggio. Siamo entrati in una fase difficile e pericolosa di recessione, di ristagno e di effervescenza politica che potrebbe diventare militare in tutto il mondo. E' una fase transitoria e rischiosa del processo di globalizzazione e per affrontarla servono serie politiche di integrazione, sostenute da cospicui finanziamenti. Soffiare sul fuoco delle paure è pericoloso per tutti, anche per chi se ne avvantaggerà nel breve termine. (Intervista a cura di Fabio Lucchini)