Un movimento sotterraneo sta maturando dentro Milano. Queste elezioni giungono al bivio di un ciclo di 20 anni: ricomporre o spezzare la coesione sociale
La questione posta da Piero Ostellino sul Corriere della Sera a proposito delle “due borghesie” nelle elezioni di Milano, è di estrema importanza.
Entrambi gli schieramenti sono stati trattati come cavalli su cui puntare, da parte dell’alta borghesia milanese. Smentendo la propria tradizione illuminista, la borghesia (le “due borghesie” dietro due rispettivi schieramenti) sembra essersi rinchiusa in una piccola prospettiva che ha la breve distanza che intercorre tra il voto e gli affari che attendono. “Le due borghesie non contano molto ai fini del risultato - scrive Ostellino - Contano parecchio dopo, quando si tratta di governare le risorse cittadine”.
In realtà è “una sola: conservatrice”.
Qui sta la ragione di una campagna elettorale indecente come forse mai Milano ha visto.
C’è stato un “classismo” capovolto, con la separazione degli interessi della borghesia milanese dal resto della città, tenuta ai margini di scelte sulle importantissime opportunità per la metropoli lombarda attorno ai grandi progetti dell’ Expò.
I cittadini milanesi non hanno sentito questo appuntamento come proprio, non si sono sentiti coinvolti in un clima comune di partecipazione per il futuro.
La cosa può essere intesa meglio con un esempio concreto.
La precedente Expò del 1906 (a Milano) rischiò di essere sospesa per mancanza di fondi. Riuscì tuttavia a giungere in porto grazie al soccorso della Camera del Lavoro, della Società Umanitaria e della sottoscrizione delle associazioni popolari (una mobilitazione di cui Filippo Turati e i socialisti furono animatori attivissimi) che permisero di integrare i fondi necessari che gli industriali di allora non erano riusciti a raccogliere, e che dal Governo non erano giunti a sufficienza.
Stavolta è mancata la sintonia tra la grande borghesia e i quartieri popolari, l’ unità civica tra le classi, che è l’ identità morale della città e che per tutto il Novecento il riformismo socialista, al governo con i cattolici o con i comunisti, ha tenuto come il quadrante di una rotta fissa, nella “moralità dell’amministrare”.
Milano ha per sua natura la necessità di includere, di ricomporre, di rielaborare e infine di realizzare una nuova unione. Questo valore di unità si tramanda di generazione in generazione perchè ha insegnato che permette lo sviluppo, in quanto promette benessere per tutti gli strati sociali.
Il decoro del milanese più povero è ciò che garantisce all’imprenditore di rischiare i suoi soldi, perchè sa che investe in un habitat di coesistenza e lavoro.
Per questo, come ha detto Carlo Tognoli, Milano non tollera i toni aggressivi, ricordando che la sinistra è sempre stata riformista e la destra liberale.
Questa civiltà milanese della “moralità dell’amministrare”, questo valore di unità, è stato spezzata dal giustizialismo di Mani pulite degli anni ’92-94 e ha causato una scissione persino sociale di cui questa campagna elettorale è una coda.
Ma siccome Milano anticipa l’Italia, ha anche dato il via a una più generale scissione delle “nuove” classi dirigenti della Seconda repubblica, dalla moralità della Nazione che quale si è tenuta in bilico per vent’anni, barcollando - appunto - sui trampoli del maggioritario, la forma politica che meglio rappresenta l’attuale bipolarismo della divisione e non dell’unità, della divergenza e non della composizione.
La scissione della borghesia milanese dai valori unitari di Milano, ha sicuramente contribuito, per la sua parte di riferimento, alle difficoltà del sindaco Moratti, ulteriormente aggravate (ben più del previsto) dal clima di rissa che si è acceso proprio negli spalti dei “moderati”, che ha portato in vantaggio Pisapia.
Verso il ballottaggio il sindaco Moratti ha tentato con evidenza di sottrarsi dalla sbagliata campagna elettorale del centro-destra, percepita come una forzatura delle elezioni per un referendum sulla politica “romana”. Era l’unica cosa da fare, anche se in extremis.
Ha infatti dell’ incredibile come sia stato ignorato che Milano non è una capitale politica, ma fa politica da sempre. A tal punto che persino nel corso di oltre un millennio - non sarà un caso - neppure la “Chiesa apostolica” qui si chiama “romana”, bensì semplicemente “ambrosiana”. Cosa si può sperare di ottenere schiacciando sotto una tabella di marcia di governo (di qualunque colore sia) la scelta del Sindaco di Milano, una carica che dà (di solito) carisma istituzionale a chi la ricopre, quasi fosse un “patrono civico”?
Ma la questione si ingarbuglia di più - perchè in un certo senso diventa politicamente inedita - in caso di vittoria di Pisapia e della sinistra.
La sinistra milanese ha le sue radici nel riformismo socialista. Qui nacque 120 anni fa la Critica Sociale e l’idea della società progressista prima che nascesse il partito socialista. Non si pensò una società sulla base di un programma di partito, ma si fece un partito sulla base di un’idea di società. Una sinistra pragmatica e non dogmatica, quindi, che ha tratto i propri valori dall’esperienza sul campo, che ha fatto dell’empirismo una “filosofia della certezza”, del “metodo” un “valore”.
Pisapia ha più volte detto, l’ultima nel corso della presentazione milanese del nuovo Riformista di Emanuele Macaluso e Gianni Cervetti, che se eletto cercherà di essere un sindaco come Tognoli, intendendo così dichiarasi pronto ad ispirarsi alla tradizione delle giunte di sinistra riformista.
Musica per le nostre orecchie. Ma è una promessa difficile, sicuramente impegnativa. Occorre tenere bene a mente che le giunte riformiste di sinistra, dal 92-94, sono state “criminalizzate” dalla sinistra milanese ed in particolare nel PDS-DS, perchè mai digerite dal berlinguerismo, sin dalla loro nascita nella fase del “compromesso storico”, nè in quella della loro demolizione nella fase della “questione morale”.
Volersi ispirare nuovamente a quell’esperienza, adeguandosi naturalmente alla nuova realtà, non sarà una passeggiata, perchè il rischio del “frontismo” (e del settarismo) è dietro l’angolo (e nella coalizione).
La scissione borghese dalla moralità dell’amministrare, trovò sì lo scalino pronto in Procura (Borrelli sembra aver fatto autocritica, l’altro ieri), ma proprio a Milano trovò nella sinistra berlingueriana la grancassa del giustizialismo che travolse i protagonisti del riformismo del Pci, in maggioranza ed in giunta coi socialisti per quasi vent’anni (e il giustizialismo è nella coalizione).
La borghesia, ovviamente, non è solo con e dietro la Moratti, ma anche con e dietro il centro-sinistra. Piero Bassetti ha rivelato in una trasmissione pre elettorale di aver verificato la disponibilità a sostenere Pisapia da parte di settori della borghesia milanese che lui stesso non si aspettava perchè tra le sue fila conservatrici. Ed ha evocato - suggestivamente - i “Cavalieri di Malta”. Ci sono poi i circoli debeneddettiani, e non mancheranno di mettersi in fila i grandi borghesi del fronte perdente che passeranno il guado (rischiando di cozzare) per concorrere anch’essi nel fronte vincente.
Tra tutte queste contraddizioni, Pisapia dovrà vincere, dopo l’eventuale vittoria elettorale, una sfida forse ancora più dura, quella di far prevalere la moralità popolare dell’amministrare sull’isteria affaristica e la sua ancella dell’anti-politica.
Insomma, la sinistra riformista non solo ha le sue radici a Milano, ma la sinistra riformista ha dato a Milano la sua etica civica. Sviluppo senza inclusione è rapina; la politica e non altro, abita Palazzo Marino. Scegliere tra il riformismo e poteri forti sarà una scelta dura che dovrà essere fatta tutti i giorni, durante il lavoro quotidiano di sindaco.
Semplifichiamola così: un sindaco riformista non può essere un sindaco sotto tutela.
Tognoli e i Cavalieri di Malta non sono la stessa cosa. Sono due moralità opposte.