Fabio Lucchini, luglio 2011,
La fine di Osama bin Laden corona un decennio di successi nel tentativo di smantellare la rete di al-Qaeda dopo l'11 settembre 2001. "La base" non è morta, ma indebolita, costretta a decentrarsi tatticamente per evitare l'accerchiamento. I governi e le intelligence hanno intensificato la lotta ai gruppi terroristici in vario modo legati al marchio qaedista, colpendone duramente i membri, individuando e rimuovendo le basi territoriali e riconoscendo e contrastando il rilevante supporto economico garantito da traffici illeciti, società fittizie e facoltosi privati. Inoltre, sono stati perfezionati gli strumenti di identificazione dei sospetti e le modalità di controllo dei punti sensibili.
Emblematici al riguardo gli sforzi posti in essere dalla Nato per fronteggiare la natura cangiante del terrorismo internazionale. L'alleanza ha attivato professionalità e messo in campo i più moderni ritrovati tecnologici per confrontarsi con una minaccia tanto destabilizzante agli occhi della pubblica opinione occidentale. Il programma di lavoro Defence Against Terrorism, sviluppato a partire dal 2004, concentra la sua attenzione sulla difesa dei militari, dei civili e delle infrastrutture critiche. Le minacce considerate sono le più svariate; dagli attentati suicidi mediante l'utilizzo di ordigni artigianali agli attacchi missilistici contro aeromobili, per arrivare all'eventualità più temuta: l'uso contro la popolazione di armi di distruzioni di massa.
Nel documento Nato, Tackling new security challenges, vengono illustrate le diverse aree di intervento che l'Alleanza ritiene fondamentali per prevenire gli attacchi terroristici e per minimizzarne le conseguenze. Dalla semplice enunciazione delle azioni previste dal programma, emerge uno spaccato della pluralità delle tipologie di attacco che gli apparati di sicurezza si trovano a fronteggiare, in una zona di conflitto come nel centro di una grande città.
In estrema sintesi, il Defence Against Terrorism si propone di:
ridurre la vulnerabilità degli aeromobili rispetto agli attacchi missilistici;
proteggere le infrastrutture chiave mediante sofisticati rilevatori, meccanismi di reazione rapida e veicoli senza pilota;
individuare e neutralizzare gli Ied (ordigni esplosivi improvvisati), come le auto-bomba e gli ordigni piazzati ai lati delle strade;
impedire l'impiego di armi chimiche, biologiche, radiologiche e nucleari;
sviluppare le tecnologie per le operazioni di intelligence, riconoscimento, sorveglianza e acquisizione di obiettivi;
accrescere le competenze delle forze di sicurezza nel trattamento del materiale esplosivo e nella gestione delle fasi successive a una deflagrazione;
adottare in modo sempre più ampio le cosiddette armi non letali (nelle situazioni di crisi l'utilizzo di questi armamenti consente di minimizzare il danno inflitto e pertanto di contenere le recriminazioni e il desiderio di rivalsa violenta dei soggetti colpiti - forze insurrezionali, manifestanti, contestatori isolati).
E' chiaro che la comunità internazionale di intelligence ha ormai acquisito le competenze per fronteggiare al meglio una minaccia complessa, che coinvolge non solo aspetti militari, ma anche economico-finanziari, tecnologici, informatici (si pensi ai cyber-attack) e persino psicologici.
Insomma, gli apparati deputati a garantire la sicurezza e a interdire la violenza terroristica si sono attrezzati per rendere sempre più complicata l'attività e la sopravvivenza dei gruppi eversivi strutturati.
Questo ha determinato negli anni un mutamento epocale e sostanziale. Il terrorismo, impossibile per natura da debellare, è costretto a trovare nuove forme operative per mantenere la sua terribile efficacia come strumento di lotta e rivendicazione. Il terrorista contemporaneo si allontana sempre più dal modello del militante consapevole e politicamente preparato, disposto a condurre un'esistenza clandestina a stretto contatto con compagni motivati e coesi. Molti terroristi sono ormai inseriti in una poco definita "rete", sostenuta da tenui vincoli interpersonali, nella quale spesso i membri di una cellula sovversiva (un pugno di individui) non conoscono quelli di un'altra operante nella medesima città.
La natura liquida e sfuggente del nuovo terrorismo pone l'accento sul singolo individuo piuttosto che sul gruppo. Motivo per cui assume sempre più rilevanza lo studio della personalità degli individui suscettibili di subire la fascinazione eversiva, affiliandosi a gruppi estremisti o addirittura sperimentando la tentazione del gesto eclatante e isolato. Soggetti insoddisfatti e prostrati dalle vicende dell'esistenza e alla ricerca di identità e appartenenza presentano una maggiore predisposizione a cedere a sentimenti di intolleranza e rabbia. Spesso costoro trovano rifugio in ideologie estremiste, ormai diffuse con grande facilità anche grazie al web. Ideologie che propongono analisi riferite a misfatti storici o a perduranti, e reali, situazioni di ingiustizia ai danni di comunità oppresse (emblematici gli ultimi riferimenti di bin Laden alla situazione palestinese) volte a rimuovere ogni remora umanitaria nei confronti del "nemico", militare o civile che sia. La percezione di ingiustizia e umiliazione è in effetti un elemento chiave per comprendere l'insorgere della violenza in generale, e del terrorismo nello specifico, più importante persino dei fattori socio-economici. Infatti, non è raro che gli attentatori suicidi godano di una situazione di relativo benessere materiale se confrontato al contesto di appartenenza (come nel caso di molti "martiri" della Seconda Intifada palestinese) o appaiano sufficientemente integrati nel corpo sociale che intendono colpire (come gli autori dell'attacco al sistema metropolitano di Londra nel 2005).
La frammentazione del terrorismo appare la frontiera più promettente per la galassia qaedista. Il decentramento regionale ha una sua importanza, ma deve fare i conti con l'ostilità dei governi, con l'attività di polizia internazionale e con l'incapacità dimostrata dai gruppi jihadisti locali di radicarsi nel tessuto sociale e di fare il salto di qualità che ha consentito a movimenti come Hamas ed Hezbollah di evolvere in formazioni politiche e non solo militari. Pertanto l'opportunità di ricorrere a "cani sciolti", a terroristi fai-da-te, in grado di colpire ovunque rimane un'opzione tattica efficace per mantenere alta la tensione anche nei paesi occidentali (più difficili da colpire) e per diffondere panico e insicurezza con attacchi limitati e a bassa intensità.
Lo smembramento e il decentramento di al-Qaeda rendono improbabile un nuovo 11 settembre come reazione all'uccisione del capo storico dell'organizzazione. Ciò non significa escludere attacchi a soft target da parte di piccole cellule, individui solitari e imitatori. Basterebbero pochi morti in una metropolitana per tenere in scacco un'intera società. In Europa e in Nordamerica l'opinione pubblica è disposta a sopportare 3-5 vittime in un mese in seguito ad attacchi terroristici? Decisamente no. Per quanti colpi possano essere sferrati alla rete qaedista, la minaccia terrorista continuerà a popolare gli incubi di governi, opinioni pubbliche e forze di sicurezza. Il nuovo attacco multiplo a Mumbai è solo un tragico promemoria.