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DA LOS ANGELES A LONDRA. QUESTA VOLTA E’ DIVERSO


Crisi economica, nuovi movimenti sociali e rivolte urbane. Tutto sta cambiando, ma chi governa il mondo non sembra capirlo. Intervista al professor Marco Lombardi

Data: 2012-01-25

Marco Lombardi, gennaio 2012,

I fenomeni contestatari degli ultimi mesi del 2011 paiono legati a un malcontento diffuso, profondo, che ha le sue radici nella fine del “trentennio glorioso” (1945-75) di crescita economica generalizzata. In effetti, a partire dagli anni settanta del secolo scorso si è assistito al  progressivo deterioramento dei sistemi di welfare e delle condizioni esistenziali di larghe fasce della popolazione. Una tendenza che si va accentuando negli ultimi anni e che, pertanto, induce a valutare le recenti ondate di protesta con maggiore preoccupazione rispetto al passato. Si saldano infatti alcune situazioni inquietanti: la proletarizzazione di ampi settori del ceto medio, la presa di coscienza, e il conseguente moto di rivolta, di molti giovani tagliati fuori dal mondo del lavoro e da dinamiche economiche sempre più finanziarie e meno reali e il crescente disagio degli immigrati che, giunti nel “nostro mondo” per inseguire delle opportunità, si rendono conto che l’Eldorado europeo non è poi così appetibile. Una saldatura preoccupante. Secondo Lei, lo è più che in passato o si rientra in normali dinamiche di protesta e di contestazione già sperimentate, contenute e metabolizzate dal sistema?

Non siamo di fronte a normali dinamiche di protesta, perché, sebbene in modo ancora scoordinato e incoerente, i diversi movimenti sorti negli ultimi mesi stanno esercitando una pressione costante sul sistema, sull’ordine costituito. Non siamo più di fronte soltanto ai famigerati black blocks, alle rivolte sporadiche di stampo etnico, ai problemi di integrazione degli extracomunitari o a proletari (uso questo vecchi termine) che rivendicano un posto di lavoro. Siamo di fronte a qualcosa di nuovo, ossia a movimenti sociali costituiti di relazioni informali tra individui che si mobilitano dandosi una missione comune e trovando in essa una ragion d’essere, una identità condivisa. Movimento sociali che hanno una organizzazione lasca, informale, che molto spesso si configurano come un insieme di gruppi e organizzazioni preesistenti, che trovano un terreno comune di collaborazione perché, semplicemente, avvertono che la realtà in cui si vive è sbagliata, non va. Informalità, spontaneità e conflittualità sono le caratteristiche di questi nuovi movimenti sociali. Essi si pongono sempre come visione alternativa al mondo presente ed è la prima volta che capita nelle modalità che osserviamo. Gli indignados che dalla Spagna hanno fatto proseliti in giro per il mondo raccolgono, oltre a giovani disoccupati e cittadini disillusi dalle promesse della politica, frange che rimandano ai black blocks, agli anarco-insurrezionalisti, all’estremismo di destra e sinistra, e incorporano esigenze che vengono da ambienti sociali connotati dalla marginalizzazione.
Il reticolo di relazioni informali descritto non si è ancora compiutamente organizzato. Si sta costruendo un’identità alternativa che contesta e rifiuta il mondo attuale. Era da tempo che non accadeva. Se vogliamo, si stanno coagulando tutti i disagi del mondo.
Quali sono le prospettive?
Il cambiamento è la proposta e l’essenza stessa dei movimenti sociali che si agitano oggi, ma anche di gran parte di quelli che sono sorti in passato, spesso ottenendo grandi risultati in tema di diritti civili, economici e sociali (si pensi al movimentismo sorto nei campus statunitensi negli anni sessanta e poi affermatosi nel Sessantotto europeo, ndr). Il cambiamento e la rottura rispetto a un presente insoddisfacente sono efficaci strumenti di lotta, funzionali agli obiettivi che ci si propone di raggiungere. Resta poi l’onere della verifica operativa, quando le richieste di rinnovamento vengono accolte. Molto spesso i movimenti sociali si aggregano contro qualcosa ma poi falliscono al momento di gestire il potere eventualmente conquistato. Storicamente, una volta raggiunto il successo, una volta che le rivendicazioni espresse hanno ottenuto riconoscimento dalle autorità, una volta avuto accesso alla sfera decisionale pubblica, molti movimenti hanno cambiato forma, si sono istituzionalizzati, frammentati e sono emerse le differenze tra le varie frange in precedenza coagulate nel perseguimento dell’obiettivo comune. Sicuramente l’attuale unità di intenti dei movimenti contestatari è dovuta all’identificazione di un nemico comune. Ma sapranno poi gestire il loro eventuale successo?
I movimenti sociali nella Storia hanno spesso dichiarato di muoversi per raggiungere la giustizia sociale, un tema molto aggregante e popolare. E anche oggi si appellano a questo evocativo richiamo. I governi e le istituzioni nazionali e sovranazionali, che sembrano non avere la reale consapevolezza di trovarsi di fronte a qualcosa di molto serio, faranno bene a non sottostimare quanto sta avvenendo, limitando al massimo il ricorso alla coercizione e alla violenza. A tal proposito, è  importante distinguere tra due termini spesso utilizzati indifferentemente per descrivere la proteste e gli scontri degli ultimi mesi: violenza e conflitto. Conflitto è uno sciopero, un blocco del traffico, una manifestazione che si protrae per giorni con l’occupazione di una piazza (come Puerta del Sol a Madrid o Zuccotti Park a New York). E’ possibile opporsi senza ricorrere alla violenza ed è una tattica efficace che il movimento Occupy ha messo in pratica con successo. Ma il conflitto può sfociare nella violenza e portare alla radicalizzazione dei movimenti. Un fenomeno che quando accade coinvolge in genere solo gruppi minoritari.

La città è il teatro dove trovano rappresentazione i conflitti e le tensioni descritte. Secondo una corrente di pensiero progressista e ottimistica, la città del terzo millennio dovrebbe essere un luogo di incontro dove il melting pot, l’incontro tra culture diverse, trovi la sua massima espressione in nome dell’integrazione e dello scambio. Tuttavia, già alla fine degli anni novanta ha iniziato a farsi largo nell’immaginario collettivo la descrizione della città come luogo della paura e dell’insicurezza. Molti politici e studiosi vi hanno costruito le rispettive fortune.  Quale di queste interpretazioni La convince maggiormente?

In realtà, credo che ogni forma di idealizzazione sia sbagliata e che i sociologi e gli scienziati sociali in genere dovrebbero evitare di cadere in un simile errore. “La città ideale” è un sogno che molti coltivano e hanno coltivato in passato. D’altra parte, si nota come la città contemporanea sia stata mitizzata sia in positivo che in negativo. In fin dei conti, “città” significa prossimità fisica tra le persone. Una rete più stretta di relazioni, contatti e anche di rapporti solidali. Tuttavia, nel momento in cui le città si caratterizzano (come avviene ai giorni nostri) come ambiti di prossimità tra persone che hanno sempre meno da condividere, allora gli aspetti positivi tendono a scemare e la prossimità diviene fastidiosa.
La vicinanza è tollerabile nella misura in cui la prossimità non è fisica, ma si riferisce a intenti, comportamenti, valori e missioni. Invece, quando non vi sono queste coincidenze, quando il vicino non è altro che un estraneo con cui condividere spazi vitali, la prossimità fisica si fa molesta, intralcia e impedisce i movimenti.
I fautori dell’urbanesimo aperto e solidale immaginano cittadini rinfrancati e fiduciosi procedere uniti e forti verso un futuro carico di promesse e speranze, ma la realtà ci parla di individui che si muovono lungo traiettorie non rettilinee e coincidenti, che spesso si intersecano e si scontrano generando confusione e diffidenza. Nei decenni le città hanno continuato a crescere, ad aumentare di densità, stringendo la prossimità geografica, incorporando diversità senza modificare i sistemi di relazione e questo è diventato fastidioso. Ci si trova in spazi ristretti e a disagio.

In effetti, anche la letteratura specializzata (ad esempio David Garland ) descrive l’affermarsi di modelli di separazione e segregazione all’interno delle città. Addirittura, non mancano episodi di vera e propria fortificazione in determinati contesti urbani.

E’ un modello di sopravvivenza, che si riproduce dalla notte dei tempi: la costruzione di città nella città. Un modello che assume forme caratteristiche oggi, che la città non è più comunità, ma è aggregazione di persone diverse che limitano i loro scambi relazionali al minimo indispensabile. E’ quanto abbiamo visto nelle città britanniche, dove, col procedere dell’immigrazione, sono prosperate le enclave etniche. Riflessi urbanistici del multiculturalismo britannico. Ma non si tratta di una specificità insulare, poiché anche la Francia, con le sue pretese assimilazioniste, non ha potuto evitare la creazione della banlieue, etnicamente connotata e determinata in virtù di una selezione economica. Siccome il reddito varia anche secondo variabili etniche, inevitabilmente e involontariamente nel tempo sono sorte le banlieues e con esse le problematiche e le situazioni di emarginazione e disagio sociale che tutti conosciamo. Anche in Italia, sono sorti quartieri satelliti popolati dagli immigrati e da coloro i quali non avevano, e non  hanno, le disponibilità per vivere nei centri cittadini. Nella città, che è agglomerato casuale di persone che cercano di evitarsi, la relazione e una qualche forma di comunanza sembrano ormai possibili soltanto nei condomini, nelle case, nell’ambito delle relazioni intrafamiliari o amicali più strette. Le grandi metropoli spingono per natura alla chiusura in se stessi, alla rarefazione delle relazioni sociali.
E’ una dinamica irreversibile e non ritengo vi siano grandi margini di intervento e correzione. Insegue chimere chi crede di poter  modificare l’esistente, lavorando sugli spazi pubblici o immaginando “miracoli” architettonici. La città degli anni duemila è questa e tale rimarrà, con le opportunità che offre ma anche con i grandi squilibri che la affliggono. I sociologi e gli scienziati sociali non dovrebbero prestare troppa attenzione a chi propone artifici edilizi o sogna di incidere sulla realtà sociale mediante la pianificazione illuminata dell’ambiente urbano. Si tratta di grandi visioni, di sogni: lasciamoli agli architetti d’avanguardia.

Passiamo ad alcuni casi di studio; tre episodi di rivolta violenta balzati agli onori della cronaca e rimasti nell’immaginario collettivo: La rivolta di Los Angeles nel 1992, le banlieues nel 2005 e i riots inglesi nel 2011. Quali le similitudini tra questi eventi? Esiste un filo conduttore? Viceversa, quali le differenze e le discontinuità? Possono insegnarci qualcosa?

Schematicamente:

1) Sono stati fenomeni prettamente urbani;
2) Hanno avuto una forte componente etnica;
3) Sebbene scatenati da singoli eventi traumatici (l’assoluzione dei poliziotti losangelini autori del pestaggio di Rodney King, la morte accidentale di due ragazzini mentre fuggivano da un controllo della polizia francese e la morte di Mark Duggan in seguito a una sparatoria con le forze di sicurezza londinesi), sono stati amplificati dal disagio socio-economico.

In generale, nessuna delle società di cui stiamo parlando, ma direi di tutte le società al mondo, ha trovato uno schema per incorporare e integrare i migranti e le minoranze in maniera soddisfacente. Di conseguenza, i migranti si scoprono spesso estranei al contesto sociale nel quale vivono e si percepiscono come gli sfruttati, i maltrattati, gli ultimi. Questo è il modo di sentire di una parte delle minoranze etniche residenti in Europa, in parte anche giustificato da un reddito che è statisticamente diverso dalla maggioranza degli autoctoni, anch’essi peraltro non risparmiati dalla povertà e dall’esclusione sociale. L’alterità percepita e la dis-integrazione interiorizzata induce a condividere atteggiamenti “contro” rispetto alla società in cui ci si trova. Conseguentemente, gli episodi di rivolta e devastazione che si sono verificati negli anni, pur mantenendo le specificità proprie di ogni contesto ambientale, risultano caratterizzati da variabili assolutamente attese.
Ciò che forse sta cambiando nel tempo è il progressivo aumento del ricorso alla violenza generalizzata e indiscriminata. Si badi bene, la violenza è connaturata a determinate modalità di protesta, ma nei pochi anni intercorsi tra le rivolte francesi e riots inglesi si nota un’evoluzione. A Parigi, nel 2005, la dimensione simbolica della violenza è parsa molto evidente, soprattutto nel rogo delle automobili che tanto ha colpito le pubblica opinione: quando si brucia un’automobile, quando si distrugge un bene, si colpisce il possessore, colui che possiede qualche cosa che all’aggressore è preclusa.
E’ una violenza dai forti tratti simbolici. A Londra, sei anni dopo, è stato diverso, più estremo. Il ricorso al saccheggio rappresenta la discontinuità forte, rende più difficoltosa la comprensione del disagio che ne è all’origine. L’accaparramento selvaggio di beni è un fenomeno inquietante che evidenzia l’accresciuto disagio economico che genera bisogni e, al contempo, l’allentamento dei freni inibitori in senso opportunistico.  Durante i riots dell’estate 2011, l’elemento simbolico dell’atto violento, che per solito rimanda a principi e obiettivi diversi e alti, pare scomparire. Se nella Los Angeles del 1992 e nelle periferie francesi del 2005 l’atto teppistico poteva giustificarsi nella ribellione a un ordine costituito percepito come ingiusto e repressivo, nella Gran Bretagna del 2011 appare arduo assegnare una valenza simbolica al saccheggio indiscriminato, spesso ai danni di negozi a gestione familiare gestiti da vicini degli stessi saccheggiatori. Davanti alla brevità temporale e alla localizzazione spaziale limitata degli avvenimenti britannici è lecito domandarsi: Si è utilizzata la protesta per giustificare i furti? Se questi miei sospetti fossero confermati, saremmo di fronte a una rottura sostanziale, a un salto nel vuoto preoccupante rispetto ai pur gravi fatti di Los Angeles e delle periferie francesi.

A livello operativo si possono delineare concretamente delle procedure per gestire situazioni di rivolta violenta in contesti urbani?

Domanda difficile. Gli eventi violenti di massa in contesti urbani sono spie di un malessere profondo, che preoccupa molto. Il primo ambito di intervento deve essere preventivo. Non è questa la sede per dilungarsi in considerazioni tattico-strategiche, che variano di caso in caso. In generale, è fondamentale che le forze di sicurezza evitino ogni sorta di atto provocatorio e comunque prediligano l’utilizzo di idranti come strumento dissuasivo rispetto al ricorso alle armi da fuoco. Tuttavia, su questo piano siamo già alla riduzione del danno, un terreno sdrucciolevole per chi vuole garantire l’ordine pubblico.
Nelle condizioni attuali, lo scontro è da evitare perché il rischio di degenerazioni è massimo. E’ stato sorprendente osservare agenti di polizia arrestare centinaia di manifestanti sostanzialmente pacifici a Brookling. Un intervento pesante, troppo. Nella fluida situazione che stiamo vivendo, non è escluso che un movimento sociale contestatario pacifico finisca per evolvere e dare luogo a forme di protesta più radicali a fronte di risposte repressive delle autorità. Ancora, chi può escludere che da una collettività rivendicativa possano distaccarsi gruppuscoli violenti, pronti a giustificare il proprio oltranzismo come unica modalità d’azione davanti ad autorità pubbliche insensibili al dialogo e pronte alla repressione?
Il termine indignados rende bene il comune sentire di gran parte del movimento contestatario globale che si è attivato negli ultimi mesi. L’indignazione è un sentimento condiviso che rimanda in genere a un ideale alto di giustizia, che non è oggettivo ma soggettivo. Oggi, i governi hanno a che fare con una soggettività collettivizzata che grazie alla rivoluzione dell’information technology oltrepassa in confini nazionali. Ciò che accade al Cairo è vissuto in tempo reale a New York. Quindi, è evidente che la gestione della piazza reale richiede prudenza e competenza, perché ogni singolo atto violento, offensivo e provocatorio è suscettibile di infiammare altre piazze, reali e virtuali.

In Gran Bretagna due ragazzi ventenni sono stati condannati a quattro anni di detenzione per aver istigato alla guerriglia su Facebook nei giorni più caldi dei riots. La sentenza è stata accolta con favore dal governo britannico. Aldilà del caso specifico, è evidente che l’utilizzo dei social network e in genere del web ponga delle questioni rilevanti in tema di libertà di espressione da un lato e di prevenzione/repressione dei reati dall’altro.


Questo è un enorme problema. I social network sono sicuramente motori di mobilità sociale. La mobilità sociale si condivide. Un movimento sociale comporta soprattutto condivisione di valori, di intenti e di missione. Implica la costruzione di un’identità collettiva contro qualcosa, si fonda su una rete di relazioni informali  molto intensa e densa. I social network sono lo strumento ideale perché permettono sempre e comunque di trovare relazioni tra simili. Consentono densità di relazioni, sono strumenti che favoriscono una necessità di relazione largamente avvertita nella società. Tuttavia, restano per l’appunto strumenti. Agevolano, non determinano.
La libertà di espressione è un valore imprescindibile, ma è bene distinguere: è evidente che chiunque inciti alla violenza o pianifichi gesta criminali di ogni sorta sia passibile di sanzione, a prescindere che lo faccia scrivendo su un giornale o “postando” su un social network. O almeno, dovrebbe essere evidente. Se qualcuno tramite il web organizza concentramenti di individui finalizzati alla violenza e all’eversione diventa problematico giustificarlo in nome della libertà di espressione.
Da una parte, vi è una pretesa di irresponsabilità assoluta, poiché il web sembra essere una terra virtuale, senza controlli, dove regna la più ampia libertà di espressione, svincolata da quei limiti che invece si accettano per gli strumenti tradizionali (ad esempio i giornali). Siamo davanti a una distorsione cognitiva. Gli stessi controlli che valgono per gli altri mezzi di comunicazione dovrebbero estendersi al web, nel rispetto del diritti e delle libertà di tutti.
D’altro canto, è altrettanto importante non incorrere nell’errore opposto. I social network sono strumenti diversi da quelli tradizionali, in termini di effetti e gestione. Banalmente, non sempre è identificabile con esattezza l’autore di un determinato post sul web. L’originalità e la specificità delle nuove tecnologie della comunicazione impedisce che siano esclusivamente lette con gli strumenti normativi validi per gli altri media. Implicano una interpreazione diversa e una regolamentazione normativa dettagliata. E’ necessario sanare l’incertezza che attualmente caratterizza la questione, perché non è immaginabile un futuro dominato da un mondo virtuale in grado di influenzare pesantemente la realtà materiale ma sganciato da ogni regola. Allo stesso modo, non è pensabile un mondo virtuale che sia governato dalle regole del “vecchio” mondo reale come l’abbiamo sin qui conosciuto. Altrimenti sarebbe il caos.
Per evitare mosse sbagliate che compromettano ogni possibilità di dialogo con chi contesta, i detentori del potere dovranno impegnarsi in uno sforzo interpretativo. Sotto questo profilo, è importante capire che non vi sono ideologie ben definite dietro quanto sia agita nelle piazze e nei social network. Le ideologie, del resto, mai hanno motivato davvero le rivoluzioni; piuttosto hanno razionalizzato a posteriori delle rivoluzioni di successo. Allo stesso modo, non è una ideologia ben definita che ispira i movimenti globali in costruzione. Le persone si aggregano intorno a disagi concreti e condivisi.  I documenti e le dichiarazioni che emergono dalla composita galassia che potremmo definire per comodità degli “indignados  globali” sono estremamente interessanti per la loro contraddittorietà politica: da un lato, oltre alle prerogative ambientaliste e antimilitariste, si auspica un rinnovato interventismo statale (pensioni per tutti, assistenza  garantita dalla culla alla bara, ecc.) e si mette sotto accusa il sistema capitalista responsabile della crisi finanziaria del 2008; dall’altro,  si ribadisce la fiducia  nel libero mercato. Ciò che si chiede è la riforma del sistema e non il suo sovvertimento totale. Per cui non esiste, o non esiste ancora, un apparato ideologico rivoluzionario ma proposte di riforma che stanno prendendo corpo all’interno di una protesta sufficientemente spontanea.
E’ una situazione in divenire e da maneggiare con cautela, poiché quel che sta accadendo non è comprensibile con i paradigmi politici degli ultimi cinquant’anni. Il mondo globalizzato che da più parti si continua a teorizzare impone dei paradigmi cognitivi nuovi e dunque nuove politiche. Il mondo muta più velocemente di ogni teoria che prova a spiegarlo, ma i governanti, ad ora, seguitano a interpretarlo con le consuete lenti. Si descrivono le violenze come atti inaccettabili, devianti, da reprimere duramente e si guarda alle contestazioni di piazza con malcelata disattenzione, sottovalutando quanto il dissenso sia diffuso nella società. E se tra qualche anno sarà l’establishment attuale a essere marginalizzato? Sei rapporti gerarchici che reggono i sistemi liberaldemocratici occidentali verranno svuotati?  Questo è il rischio che corrono le attuali classi dirigenti se non rinnoveranno gli strumenti di comprensione e analisi degli accadimenti socio-economici. Per ora, nulla sia muove. (Un immobilismo che nemmeno tiene conto, verrebbe da dire, della massima “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi” espressa da Tancredi Falconeri e da Don Fabrizio principe di Salina, personaggi principali de Il Gattopardo, celebre romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, ndr) - Intervista a cura di Fabio Lucchini-


Marco Lombardi, responsabile del progetto ITSTIME, è professore associato all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove insegna Gestione della crisi e comunicazione del rischio; Teoria e tecniche delle comunicazioni di massa e Sociologia. E' membro del consiglio direttivo del Dottorato internazionale di criminologia e dei master in Scienze della Sicurezza urbana e in Contesti relazionali di emergenza. Coordina le attività della sezione Ambiente, territorio e sicurezza del Dipartimento di Sociologia e svolge attività di ricerca nell'ambito della gestione delle crisi, focalizzandosi soprattutto sui fenomeni legati al terrorismo. E' parte del gruppo di esperti che assistono la Commissione Europea nell'area "giustizia, libertà e sicurezza" e collabora con numerose agenzie istituzionali impegnate nel campo della sicurezza.

Dello stesso autore:
Terrorismo, prevenzione e gestione delle crisi






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