Henry Luce e il suo secolo americano. Un libro di di Alan Brinkley
Bill Keller
Di tutte le discussioni attualmente in atto nei rumorosi incroci dell’industria dell’informazione, nessuna è così fondamentale quanto il dibattito che riguarda l’autorità giornalistica - chi ce l’ha, e quanto vale. Da una parte, per semplificare al massimo, c’è l’opinione che il potere democraticizzante di internet ha reso obsolete le forme e i valori tradizionali del giornalismo, insieme, non incidentalmente, all’idea che il pubblico debba pagare per le notizie. Alan Rusbridger, l’editore del ‘Guardian’ di Londra, ha osservato recentemente che il ‘vecchio mondo’, in cui ai giornalisti era affidato il compito di impostare un filtro e assegnare la priorità alle varie notizie, è oggi in tensione con “un mondo in cui molti lettori (ma non tutti) vogliono avere l’abilità di formarsi un proprio giudizio, stabilire le proprie priorità, creare i propri contenuti, articolare le proprie opinioni, imparare dallo scambio alla pari quanto dalle fonti tradizionali d’autorità.” Per la maggior parte degli utopisti partigiani di questa saggezza popolare, la fiducia nei giornalisti professionisti è vista come elitaria e superata. Dall’altra c’è la convinzione che una parte importante della popolazione, formata da persone serie, senta il bisogno di qualcuno con esperienza, tirocinio e standard- reporter e editori- che la aiuti a svelare e a scegliere le notizie, ad identificare cosa è rilevante e a comprenderlo.
Questo, non preclude in alcun modo la presenza del pubblico come commentatore, come contribuente e collaboratore (ne è la prova lo splendido ibrido fatto di giornalismo professionale e amatoriale che ha tenuto in vita il flusso di notizie dall’Iran). Sotto questa concezione- da me condivisa – l’autorità del giornalismo professionale giova sia al lettore privo del tempo o dell’inclinazione per gestire da solo lo tsunami delle informazioni, sia al bene civico, che in una democrazia necessita una base comune d’informazione sicura su cui fondare il proprio giudizio.
Henry R. Luce può essere considerato il padre fondatore della scuola dell’autorità giornalistica, nel bene e nel male.
Creatore di ‘Time’, ‘Life’, ‘Fortune’ e più avanti di ‘Sports Illustrated’, è stato un magnate dei media al tempo in cui, per dirla con le parole di A.J.Liebling (ndt), la libertà di stampa apparteneva all’uomo che possedeva la stampa ( mentre oggi è di chiunque abbia un provider online), un tempo in cui un singolo editore poteva aspirare a cambiare il corso degli eventi storici. Luce usò il suo potente megafono per promuovere i leader che ammirava, per ritrarre benevolmente la borghesia americana e per portare avanti la causa dell’interventismo americano, al punto da includere una passione inesorabile per la disavventura in Vietnam. Quello che era da lui chiamato “giornalismo d’informazione con uno scopo” era difficilmente distinguibile in alcuni casi dalla propaganda e gli procurò l’opposizione degli intellettuali liberali. Alan Brinkley, figlio del ‘New Deal’ e spesso citato in queste pagine, ha il dono di riportare alla luce aspetti nascosti dei personaggi che sono stati ridotti a delle macchiette.
“Voci della protesta”, per il quale ha vinto il National Book Award, ha rivalutato i vignettisti demagoghi Huey Long e Father Charles Coughlin e posto l’accento sul loro ruolo importante nel costringere il presidente Frankin D. Roosevelt a interessarsi delle miserie economiche della Grande Depressione.
Nel ‘The Publisher’ (l’Editore), Brinkley fa lo stesso. Il suo Luce è una figura complessa, più tragica che maligna. Questo non vuol dire che ne ritrae un profilo particolarmente lusinghiero. Il libro rende piena giustizia all’insicurezza esteriore di Luce, alla sua cieca affinità con gli uomini di potere e alle sue mancanze nella vita familiare. Ricrea un’immagine umana, che valuta il ruolo delle sue riviste, Time e Life su tutte, in un paese che stava diventando, non senza incontrare difficoltà, la forza geopolitica egemone nel mondo. I periodici di Luce fornirono l’adesivo culturale che ha coeso la classe media in una comprensione condivisa del mondo e l’ha accompagnata attraverso i periodi di guerra e le crisi economiche. Difficile immaginare qualcosa che ricopra una funzione simile nel disgregato sistema mediatico oggi.
Per chi, come me, ha conosciuto la figura di Luce attraverso il libro di Halberstam ‘The Powers That Be’ ( ‘I poteri in atto’ ndt), la biografia curata da Brinkley non è particolarmente rivelatrice, ma è acuta e, in fondo, più comprensiva. ‘The Powers That Be’ è basato su una serie di interviste, ed è una lettura propulsiva (o estenuante, a seconda di come vi troviate con la prosa metanfetaminica di Halberstam). Il libro di Brinkley, scritto 30 anni dopo, quando gli intervistati da Halberstam non erano più in circolazione, fa invece riferimento a voluminosi epistolari e diari. Questo è efficace perché i soggetti erano, prima di Twitter e della messaggistica istantanea, corrispondenti prolifici e letterati.
L’uomo che avrebbe proclamato, in un suo famoso editoriale su Life, che il ‘900 era “il secolo americano” nacque e crebbe a 6.000 miglia dalle coste nazionali. Il padre era missionario presbiteriano in Cina, un uomo illuminato che aveva studiato a Yale e che vide nel suo compito non solo la mera conversione dei Cinesi alla propria fede, ma l’emancipazione della popolazione verso gli standard occidentali dell’educazione e del benessere per farla gravitare spontaneamente intorno alla cristianità. Quello che il figlio ereditò dal padre fu l’ambizione alla grandezza - una missione per se stesso - e la paura di non poter mai reggere il confronto.
Come allievo a Hotchkiss(ndt) e a Yake, Luce fu uno studente brillante ma dolorosamente consapevole di non venire da una situazione di ricchezza; la sua invidia risentita nei confronti di coloro che erano nati privilegiati avrebbe plasmato in lui e nei suoi giornali l’idea di una classe media soddisfatta e compresa. A Hotchkiss, Luce incontrò fra altri una delle due persone che sarebbero comparse più di una volta nella corso della sua vita adulta, entrambe simultaneamente rivali e compagne. Briton Hadden era inconoclastico tanto quanto Luce era serio, sregolato quanto Luce era disciplinato, carismatico, mentre Luce era socialmente un inetto.
Gareggiarono per i riconoscimenti e per la fama al liceo e durante l’università, e pochi anni dopo la laurea collaborarono in un audace impresa giornalistica.
Luce e Hadden condividevano il disprezzo per i media principali del tempo, i giornali popolari sensazionali e i seriosi quotidiani che consideravano noiosi ed esagerati. Colmi di una sicurezza precoce, concepirono un settimanale, un compendio di notizie e analisi selezionate da altre pubblicazioni. Il giornale, il quale avrebbe dovuto chiamarsi “Facts” (Fatti) - diventò Time ancor prima del suo debutto nel1923 – prometteva di perlustrare quasi 90 periodici e di amalgamare notizie di ogni tipo. La sua missione dichiarata era di servire “l’alta borghesia illetterata, l’uomo d’affari oberato, la debuttante stanca, per prepararli una volta alla settimana ad una conversazione da cena.”
“Non erano altro che dei presuntuosi- due ventiquattrenni, squattrinati, appena un paio d’anni di esperienza giornalistica in due, che intraprendevano la fondazione di una testata alla fine di una severa recessione.”
La nuova rivista aveva le qualità che oggi si associano ai blog. Era concisa e informale, piena di dritti e rovesci politici, scritta in una prosa non convenzionale, la quale ispirò parecchia satira da parte degli altri giornali. (“Frasi che corrono a ritroso fino ad arrovellare la mente” così pariodò il New Yorker). Quando l’autolesionismo di Hadden lo portò a morire a soli 31 anni, Time era già un incredibile successo e un nuovo giornale economico, Fortune, era sulla rampa di lancio. Pochi anni dopo, Luce stava progettando una rivista illustrata che sarebbe diventata la popolarissima Life. Insieme a Time che aveva iniziato come un estratto da altre pubblicazioni, Life e Fortune diventarono tutte vetrine per il lavoro originale dei migliori scrittori e foto-giornalisti che abbiano mai calcato la terra. Alcuni di loro – James Agee, Theodore White, Archibald MacLeish, Margaret Bourke- sono protagonisti di memorabili passaggi di questo libro.
Però la più importante figura di supporto nella narrazione, assieme a Hadden, è Clare Boothe Luce, seconda moglie del mogul mediatico, sceneggiatrice, membro del congresso, ambasciatrice in Italia, una vera fuori di testa. Le sue gesta avrebbero potuto riempire numerose copie della rivista popolare che la Time Inc. procreò dopo la morte di Luce: People. La loro fu una relazione tempestosa, competitiva, devastante, accompagnata da liti esplosive, note romantiche, poco sesso e esperienze con LSD (lei lo adorava, lui no), e sinistramente, da lettere melodrammatiche di cui Brinkley fa largo uso.
Fin dall’inizio i periodici di Luce non rifuggirono dalle opinioni, e Luce stesso si battè, non sempre con successo, per assicurare che tali opinioni fossero le sue. Insistette sul titolo di capo editore piuttosto che quello che Brinkley ha scelto ( ndt: ‘l’Editore’), riflettendo un ruolo nel contenuto che fu aggressivamente pratico.
Halberstam descrisse Luce come in parte provinciale, sottolineando che “i nostri migliori editori sono sempre stati in almeno in parte provinciali, tutto è nuovo e possibile per loro, non prendono niente per garantito”. La curiosità e la meraviglia quasi fanciullesca di Luce furono il genio compensante dei suoi giornali.
Ma le sue pubblicazioni furono anche caratterizzate da un’infatuazione per il potere- Brinkley scrive che per lungo tempo, Mussolini fu trattato con un incanto tale “spesso indistinguibile dall’ammirazione”- e da una totale partigianeria, in maggioparte repubblicana. Luce esortò i suoi giornali a promuovere i politici da lui prediletti. Scriveva i discorsi di campagna elettorale per Wendell Willkie, adorava Eisenhower, pagò prodigalmente per degli estratti dalle memorie di Wiston Churchill, e rimase un po’ abbagliato dal Camelot di Kennedy (ndt). Fu tamente miope nella sua devozione per l’autocrate nazionalista cinese Chiang Kai-shek che passò sopra ai suoi stessi scettici corrispondenti e minimizzò la forza crescente del comunismo cinese. Auspicò un intervento americano per liberare la Cina, usando in caso di necessità anche le armi nucleari. Luce disprezzava Roosvelt - in parte perché Roosvelt mancò di lusingarlo, ma soprattutto perché vide Roosvelt troppo passivo in campo internazionale - e usò Time per intraprendere una faida contro il presidente.
Anche Fortune, ebbe il suo ordine del giorno il quale è definito da Brinkley “ mezzo per legittimare il modernismo, per ricompensare chi contribuì alla razionalizzazione dell’industria e del commercio, e per celebrare l’elegante estetica che l’accompagnava.” Il ruolo di ‘Life’ fu di promuovere e idealizzare l’armonica borghesia d’America: in un’era appassita dalla depressione, dal pregiudizio, dai tumulti sociali e dall’ombra della guerra, Life offriva l’immagine confortante di una nazione unita sotto il condiviso, se voluto, ‘sogno americano’.
La causa costante di Luce, forgiata dalla seconda guerra mondiale e alimentata dal suo odio per il comunismo, ruotava intorno alla sua attivista, paternalistica visione del ruolo americano nel mondo, e sul suo sdegno verso coloro i quali gli sembravano isolazionisti e appagati. Era articolata nel suo saggio ‘The American Century’ (il secolo americano) e permeava nelle sue pubblicazioni. A un certo puntò contemplò la possibilità di trasformare Fortune da rivista economica a “rivista dell’America quale potenza mondiale”.
Halberstam definì Luce “il più potente editore conservatore americano, e negli anni ‘50, influente almeno quanto un segretario di stato.”
Brinkley spinge un po’ più pesantemente di altri biografi sulla frustrazione del potere di Luce – non solo nella sua inefficacia nell’indirizzare i presidenti dove non volevano, ma anche nella difficoltà che aveva di far seguire ai suoi editori e scrittori la sua linea ideologica. Il suo odio per Roosvelt non intaccò la popolarità di quel governo e nemmeno ne distorse le politiche. La sua convinzione che gli Stati Uniti sarebbero dovuti intervenire in Cina non fece presa.
Quando Luce scrisse ‘The American Century’, il fatto che l’America fosse emersa dall’ombra dell’Europa per diventare la più potente nazione del mondo era sia saggezza convenzionale sia pura verità.
“Le sue riviste furono soprattutto il riflesso del mondo borghese, e di rado lo modellarono”, conclude Brinkley. “Luce influì maggiormente nella diffusione delle idee che già stavano emergendo da un largo segmento della popolazione Americana - in particolare nei primi anni 40”
Luce non fu nemmeno così tanto conservatore. Sostenne la crescita del potere governativo, incluse le riforme sociali. Difese i diritti civili delle minoranze e fu meno sciovinista dei suoi pari riguardo alla libertà femminile. Fu a favore dei sindacati. Pur se zelantemente anti-comunista, fu sdegnoso nei confronti degli eccessi di Joseph McCarthy. “Luce si dichiarava sempre come liberale – non un liberale di sinistra, ma liberale perché aperto a nuove idee e disposto ad abbracciare i progressivi cambiamenti” scrive Brinkley. C’era una superiorità intellettuale nei suoi sforzi che merita ammirazione. Qualsiasi cosa si possa pensare di Luce, non scese mai nel mercato basso. Luce insisteva che il modo per rinvigorire i suoi giornali fosse farli meglio, non più stupidi, più populisti, più sensazionali o più cinici, qualunque cosa li indebolisse. Il suo scopo non fu mai solo l’espansione del suo pubblico o la demolizione degli avversari, ma il progresso di quello che vedeva come la grandezza della propria nazione.
Nell’opinione di Brinkley, l’eredità di Luce non si rileva nelle grandi influenze sui politici o sulle politiche d’America, ma nella creazione di nuove forme di media i quali – al loro tempo, prima di eclissare dietro la televisione prima e internet poi – “aiutarono a trasformare il modo in cui le persone vivevano le notizie e la cultura”
Cosa si vuol dire con questo, esattamente? Le riviste di Luce, e più avanti il familiare notiziario trasmesso nell’era dello ‘Zio’ Walter Cronkite(ndt), fornirono agli americani una saggezza comune, una unificante idea di mondo. Brinkley scrive: “La costruzione dell’impero mediatico di Luce è parte di un fenomeno più ampio della prima metà del ventesimo secolo: la nascita di una cultura di massa nazionale disegnata primariamente per servire una nuova borghesia in rapida espansione…Parte di questo considerevole risultato, fu la sua abilità nel fornire un immagine della vita americana che ha aiutato una generazione di lettori a credere in una seducente, consensuale panoramica della cultura nazionale. “
Dopo la sua morte, avvenuta nel 1967, quel consenso è stato fatto a pezzi e oggi non c’è nessun veicolo, nessuna voce dal potere coerente che le riviste di Luce possedevano un tempo. L’ultimo di questa specie di magnati dei media è un milionario australiano di 79 anni il cui impatto è stato più corrosivo che coesivo (ndt).
Sarebbe un errore idealizzare il tipo d’autorità giornalistica del secolo scorso. Ma è probabilmente giusto dire che la cacofonia dei media oggi – in cui il rumore e l’invettiva spesso sovrastano la verifica dei fatti, le cui teste urlanti escludono la sobria riflessione, in cui è possibile per le persone sentirsi pienamente informate senza mai nemmeno incontrare un opinione che contraddica i loro pregiudizi – gioca un ruolo importante nella polarizzazione dei nostri politici, nella disfunzione del nostro sistema politico e nell’aumentato cinismo dell’elettorato americano.
NOTE DEL TRADUTTORE
-A.J. Liebling è stato un noto giornalista e scrittore americano. La dichiarazione riportata dall’autore dell’articolo è un riferimento chiaro per i lettori americani.
- David Halberstam, è stato giornalista e scrittore americano, vincitore del premio Pulitzer, scomparso nel 2007. Il libro citato è una rassegna dei ‘poteri’ mediatici della seconda metà del ventesimo secolo.
- Hochtkiss è una prestigiosa scuola privata americana, ‘prep school’ ossia scuola di preparazione all’università, l’equivalente dei Licei classici e scientifici in Italia.
- ‘Camelot’ di Kennedy è un’espressione spesso usata per riferirsi al breve periodo di presidenza di John F. Kennedy (1961-1963) considerata come epoca idilliaca. A crearla fu la vedova del presidente, Jacqueline Kennedy.
- “Uncle” Walter Crondike, leggendario giornalista e mezzobusto della CBS condusse numerosi programmi d’informazione, tra cui il giornale serale. Nel 1962, dopo un sopralluogo in Vietnam in seguito all’offensiva di Tet, dichiarò durante il notiziario: “l’esperienza sanguinaria del Vietnam finirà in uno stallo.” Crondike era considerato ‘l’uomo più autorevole d’America’ e l’allora presidente Johnson commentò così l’accaduto: “ho perso Crondike e ho perso il centro del paese.”
- Il riferimento è a Rupert Murdoch, proprietario di un vasto impero mediatico negli Stati Uniti e nel mondo.
ALAN BRINKLEY è uno storico americano, professore di Storia alla Columbia e rettore di facoltà. Collabora frequentemente con varie testate giornalistiche newyorkesi (tra le quali il The New York Review of Books) e ha pubblicato diversi libri, tra cui un manuale di Storia per le università. Oltre alle biografie citate nell’articolo merita di essere segnalata quella su Roosvelt ‘Franklin Delano Roosvelt’, pubblicata nel 2009. Oltre al ‘National Book Award’ ha ricevuto diversi premi per la ricerca e l’insegnamento.
BILL KELLER è un giornalista e scrittore americano. Vincitore di numerosi premi Pulitzer è attualmente editore esecutivo del ‘The New York Times.’
(Traduzione e note a cura di Ilaria Calamandrei)