La pena di morte torna al centro del dibattito periodicamente, quando un fatto eclatante di cronaca nera ci interroga sull’opportunità di reintrodurla nel nostro Paese o quando viene applicata a un caso concreto in quelle nazioni dove invece non è stata abolita. Il rilievo assegnato dai media di tutto il mondo alla recente sentenza indiana relativa a un efferato episodio di violenza collettiva ai danni di una ragazza ne è un esempio. Per solito, tuttavia, il dibattito dura lo spazio di una settimana e gli eventuali approfondimenti dell’argomento interessano a pochi.
David Garland è un criminologo scozzese e professore della New York University, noto in Italia per aver scritto due importanti saggi: Pena e società moderna e La cultura del controllo. Il suo ultimo lavoro, un approfondito studio sulla pena di morte negli Stati Uniti, è stato presentato recentemente dall’autore all’Università di Milano-Bicocca davanti a un folto pubblico di studenti, ricercatori e giornalisti.
Nella sua opera Garland ha cercato di spiegare le ragioni sociali e politiche che ancora sostengono nell’America del ventunesimo secolo l’istituto della pena di morte. Una questione che rimane di estrema attualità, se si considera che nel mondo sono ben 43 i Paesi che ancora la applicano: di essi, 36 sono regimi dittatoriali, autoritari o illiberali e solo 7 (tra questi gli Usa, il Giappone, l’Indonesia, l’India) si possono definire democratici.
Un’iniziativa, quella dell’Ateneo milanese, quanto mai opportuna, alla luce del vivace dibattito tra chi vorrebbe reintrodurre la pena capitale anche in Europa (e in Italia) e chi invece la ritiene una misura inutile e indegna di uno Stato democratico. Lo spazio che viene solitamente riservato dai media alla cronaca nera non fa altro che rendere più aspro e polemico un confronto che rimane aperto in tutto il mondo occidentale, dove parti consistenti, se non maggioritarie, dell’opinione pubblica si dichiarano favorevoli alla pena di morte come extrema ratio per i reati più gravi.
Sicuramente la pena capitale ha un grande supporto popolare negli Stati Uniti, dove alcuni politici si sono giocati la carriera sull’argomento e dove altri si sono ben guardati dallo sfidare il sentire comune. Dopo aver perso in gioventù un’elezione locale anche per aver mostrato riserve sulla pena capitale, Bill Clinton, una volta diventato presidente, si è sempre dichiarato favorevole al mantenimento della stessa nell’ordinamento.
E’ tempo di smettere di parlare di pena di morte in maniera astratta e filosofica, sostiene Garland, spiegando con chiarezza alla platea milanese l’esperienza americana. I dati sono eloquenti: negli Stati Uniti il 99% degli omicidi non viene punito con la pena di morte, il 66% delle condanne capitali viene trasformato in ergastolo e, nei restanti casi, il tempo medio di attesa tra sentenza ed esecuzione è di ben 14 anni. Infatti, sono necessari circa una decina di ricorsi e appelli prima che un condannato nel “braccio della morte” conosca il proprio destino. Inoltre, non tutti gli Stati della nazione americana applicano questa misura estrema (18 l’hanno abolita da tempo, alcuni addirittura nel corso dell’ottocento). In America vi sono attualmente 2.3 milioni di detenuti nelle carceri e, nel 2012, a fronte di 14.000 omicidi sono state comminate una settantina di condanne a morte. E i numeri sono in costante calo.
Pertanto, prima di esprimere un parere a favore o contro la pena di morte sarà opportuno comprendere come essa funzioni davvero. L’esperienza di un Paese occidentale sotto molti aspetti simile al nostro sembra contraddire chi pensa che la pena di morte sia uno strumento di giustizia (o addirittura di vendetta) efficace e certo. Quell’efficacia e quella certezza che spesso mancano alla giustizia penale italiana. Eppure, il lavoro di uno studioso del calibro di Garland descrive un sistema dai tempi lunghi e dove la condanna a morte si risolve spesso nella commutazione della pena in ergastolo o nel ribaltamento della sentenza. Con grave pregiudizio dei sentimenti dei famigliari delle vittime e con notevole spreco di tempo e risorse. Senza contare il dramma delle esecuzioni di individui poi rivelatisi innocenti.
I dati evidenziano, conclude Garland, che le due più importanti motivazioni a sostegno della pena di morte, l’effetto deterrenza rispetto alla commissione di reati gravi e il bisogno di giustizia dei famigliari delle vittime, vengono meno nella pratica americana (e questo aldilà di ogni legittima considerazione umanitaria). Un importante contributo a un dibattito che resta tuttora aperto e irrisolto. (Fabio Lucchini)
David Garland, La pena di morte in America. Un’anomalia nell’era dell’abolizionismo, Il Saggiatore 2013.