L’accordo nucleare recentemente raggiunto a Ginevra dai ministri degli Esteri iraniano, dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza Onu (più la Germania) e dall’Alto rappresentante per gli affari esteri della Ue, Catherine Ashton, rappresenta un indubbio successo per Teheran. Si tratta certo di un accordo limitato nel tempo, che entro sei mesi dovrà portare a una sistemazione definitiva della questione.
Il patto sancisce l'impegno dell'Iran di ridurre tutto l'uranio già arricchito al 20% a ossido combustibile per il suo impianto nucleare di ricerca o a diluirlo fino al 5%. Teheran si impegna altresì a non arricchire per tutto questo periodo uranio oltre il 5% e a bloccare i lavori ai tre impianti di Natanz, di Fordo e in particolare al reattore ad acqua pesante di Arak, che potrebbe produrre plutonio. Infine, si impegna a permettere ispezioni, anche quotidiane, ai diversi impianti atomici e alle stesse miniere di uranio. In compenso, la comunità internazionale si impegna a sbloccare fondi iraniani congelati dalle sanzioni e ad attenuare divieti alle esportazioni in alcuni settori, per un totale tra 6 e 7 miliardi di dollari, su un totale di circa 30 imposti dalle sanzioni in essere. Si prevede che anche l'accordo definitivo preveda "un programma di arricchimento dell'uranio mutuamente concordato, con parametri definiti", il che di fatto accetta la rivendicazione iraniana a conservare il diritto ad arricchire l'uranio, nell'ambito di programmi pacifici e controllati, come d'altronde è previsto dal Trattato di non proliferazione nucleare (Npt).
Come osserva il direttore del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente (Cipmo), Janiki Cingoli, l'accordo non risolve il problema nucleare iraniano, ma allunga di qualche mese il periodo di tempo entro il quale l'Iran potrebbe produrre un'arma atomica. L'Iran si appresta a divenire una delle ‘potenze nucleari in potenza’ come lo il Giappone: Stati che non posseggono le armi nucleari, ma hanno la capacità di costruirle, se vogliono.
Si spinge oltre il think tank israeliano, Debkafile, che, citando una fonte a Washington, afferma che Barack Obama e il suo segretario di Stato, John Kerry, per convincere il governo degli ayatollah a firmare l’accordo ginevrino del 24 novembre, avrebbero segretamente deciso di elevare l’Iran allo status di settima potenza mondiale. La fonte non specifica in che modo avverrebbe una simile ‘promozione sul campo’, ma è presumibile che essa passi dall’assistenza militare ed economica, in particolare con l’apertura al mondo del promettente mercato iraniano. Un riconoscimento aldilà dei sogni più arditi del governo di Teheran che, se davvero portasse all’inclusione di un paese a lungo paria nella ristretta cerchia delle potenze più influenti, vedrebbe finalmente riconosciuto il suo ruolo strategico primario nel Golfo Persico, in Medio Oriente e in Asia Occidentale, Afghanistan incluso. L’obiettivo americano è eliminare le armi nucleari iraniane prima che esse vengano costruite, onde evitare di dover ricorrere alla forze per eliminarle in un secondo tempo, un’operazione che sarebbe comunque rischiosa. Gli Stati Uniti hanno pertanto deciso di scambiare un eventuale, e imprevedibile, attacco aereo agli impianti iraniani con un certo grado di controllo sugli sviluppi del programma nucleare di Teheran. Dal canto suo, il governo iraniano e la Guida suprema, Ali Khamenei, hanno evidentemente preferito scendere a patti rispetto a un programma nucleare che non ha ancora prodotto l’atomica per ottenere la riduzione delle sanzioni e conseguire un successo d’immagine.
George Friedman, Stratfor, sottolinea che, sebbene il processo negoziale coinvolga Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Cina, Russia e Germania, altri sono i paesi che temono di subirne le più pesanti conseguenze: Arabia Saudita e Israele. Sembra quasi ironico che due paesi tanto distanti si ritrovino accomunati, ma è proprio così. Infatti, non mancano i punti di contatto tra la monarchia conservatrice del Golfo e l’avamposto occidentale in Medio Oriente, poiché sia i sauditi che gli israeliani sono acerrimi nemici dell’Iran, stretti alleati degli Usa ed entrambi vedono l’accordo di Ginevra come un tradimento da parte di Washington.
Con l’acquiescenza americana, l’Iran ha i numeri per diventare la principale potenza militare nel Golfo Persico. Una circostanza preoccupante per l’Arabia Saudita, che deve gestire la consistente minoranza sciita delle province orientali del Paese, ricchissime di petrolio. Non stupisce che Riyadh tema che gli iraniani, anch’essi di confessione sciita, approfittino di ogni minimo spazio di manovra per influenzare la politica interna saudita su questo delicatissimo punto. Sinora, gli Usa si sono incondizionatamente impegnati a tutelare la monarchia saudita dall’Iran, ma le condizioni rischiano di mutare con rapidità.
Nonostante il gap ideologico tra Stati Uniti e Iran e la violenza retorica che ha caratterizzato le loro relazioni, una volta risolta la disputa nucleare non esistono ulteriori, insormontabili, ostacoli a una normalizzazione diplomatica e a una intensa collaborazione commerciale. Certo, gli Usa chiedono all’Iran di smorzare il proprio supporto a Hezbollah e alle organizzazioni terroristiche anti-occidentali. Dal canto loro, gli iraniani vogliono garanzie che in Iraq non si instauri un governo ostile ai propri interessi e auspicano che Washington si comporti di conseguenza.
Una simile richiesta iraniana è fonte di grande preoccupazione in Arabia Saudita, dove la prospettiva di un Iraq sciita e filo-iraniano a nord del confine toglierebbe il sonno a molti. Come noto, Riyadh sovvenziona combattenti sunniti in tutta la regione in una sorta di guerra fredda contro Teheran ed ogni avanzata degli interessi iraniani in Iraq costituirebbe simmetricamente una minaccia per la dinastia regnante deli al-Saud.
Dal canto suo, Israele non accetta di vedere gli Usa accordarsi con Teheran sul programma nucleare, perché intravede conseguenze politiche nefaste dall’accomodamento Obama-Rohani. Certo, la situazione del governo di Tel Aviv pare meno difficile di quello di Riyadh: Israele potrebbe anche tollerare una Iraq filo-iraniano, i sauditi no; e Israele potrebbe convivere, come fatto del resto sinora, con forze ostili (come Hezbollah) foraggiate dagli iraniani, i sauditi no.
Tuttavia, per entrambi i paesi, il problema è più profondo, sottolinea ancora Friedman. Israele e Arabia Saudita dipendono troppo dagli Usa per la propria sicurezza nazionale e la loro grande influenza a Washington rischia invece di declinare in seguito ai recenti sviluppi diplomatici. Considerando che i due governi non hanno la forza per bloccare l’avvicinamento americano all’Iran e non hanno la possibilità di affidarsi a un protettore alternativo (non certo la Russia di Putin), è comprensibile che essi stiano interpretando l’accordo di Ginevra come un segnale di pericolo.
Ciò non significa che gli Usa vogliano abbandonare i loro alleati storici in Medio Oriente, ma piuttosto ridefinire i rapporti secondo la logica del balance of power e dell’equilibrio regionale. Ammaestrato delle esperienze in Afghanistan e Iraq, il Pentagono sta ridimensionando i propri obiettivi strategici per perseguire l’interesse nazionale americano nel mondo senza un impegno insostenibile di risorse. Il balance of power risponde a questo intento strategico e il più naturale bilanciamento delle forze in Medio Oriente e quello tra sunniti e sciiti, tra arabi e persiani/iraniani. L’auspicio di Washington non è lo scontro, ma la reciproca paralisi tra queste forze contrapposte.
In conclusione, con la sua apertura all’Iran l’America ha allentato, senza scioglierli, i suoi vincoli di alleanza con sauditi e israeliani. Washington non lascerà soli i suoi vecchi amici, ma non sarà pronta ad ogni costo a garantire un proprio intervento al loro fianco. Consapevoli di ciò, i sauditi dovranno rafforzare il proprio peso politico e diplomatico e gli israeliani dovranno imparare a gestire i loro problemi strategici senza far troppo conto sul sostegno americano. In Medio Oriente si apre quindi un nuovo scenario, caratterizzato da estrema fluidità e tale da richiedere ai principali attori regionali meno rigidità e maggiore propensione al dialogo. Resta da vedere se il disimpegno Usa e la ridefinizione del quadro delle alleanze americane coincideranno con una fase di apertura e dialogo o con un aumento della conflittualità tra le potenze regionali. (A cura di Fabio Lucchini)