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... ve; - o ottiene solo molto in là nel tempo - le sicurezze che possono dare la stabilità affettiva o economica. E per questo, alla fine, rinuncia a far figli. Peggio, finisce con il trovare nella rinuncia alla vita una soluzione a quei problemi che in realtà spetta alla politica risolvere, non alla sua coscienza individuale. Se la scelta tra vita e morte pertiene infatti certamente la coscienza individuale di un essere umano, sta alla politica fare in modo che nessuno debba subordinare la propria coscienza alle circostanze materiali.
Sta alla politica dunque realizzare servizi di assistenza e cura che garantiscano ad ogni donna il diritto ad una maternità sana; sta alla politica predisporre misure effettive di sostegno economico, non limitandosi ai casi di povertà estrema, ma facendosi carico del fatto che mettere al mondo un figlio è una responsabilità di cui l’intera società deve farsi carico; sta alla politica costruire asili – e obbligare le aziende a costruirne al proprio interno - perché conciliare lavoro e figli non sia un lusso per pochi ma un dovere/diritto per tutti. Sta alla politica, insomma, fare in modo che non un solo bambino venga sacrificato perché la prospettiva di dare la vita si presenta più come una minaccia che come un dono.
Il paradosso, a trentanni dalla Legge 194, è che in Italia chi può permettersi di fare figli, può permettersi anche di preservare la propria integrità etica. Chi, invece, non ha i mezzi per far figli, questa integrità etica è spesso forzato a violarla, laddove l’aborto si rivelasse una scelta obbligata più che un diritto civile.
Ma qui la responsabilità va equamente distribuita tra la politica annichilita dall’ideologia emancipatrice laico-femminista e la Chiesa cattolica. Se è colpa delle scelte (o non scelte) compiute dalla politica italiana in materia di politiche sociali “per la vita”, alla Chiesa domandiamo cosa abbia fatto perché una “ragazza madre” fosse valorizzata nel suo ruolo di madre potenziale invece di essere deprecata per il suo ruolo di peccatrice. Cosa ha fatto la Chiesa cattolica per nutrire nella società italiana quel senso di sacralità per la vita che, solo, può ispirare una politica della vita naturalmente condivisa, perché fondata su valori non negoziabili per nessuno.
Cosa ha fatto, insomma, la Chiesa cattolica per realizzare nel nostro paese quel magistero sociale che le impone di farsi attore, non spettatore critico, della civilizzazione.
L’uomo a cui la Chiesa parla vive nella Storia, agisce in essa, crea la Storia. La Chiesa non può esimersi dalla responsabilità di guidarlo, non può negare il compiersi della Storia ma deve semmai accompagnarlo, rinnovando il valore meta-storico del messaggio evangelico, l’universale coté metafisico dell’esperienza umana. La vita è l’indizio più imperscrutabile e irrisolto della metafisica umana. Un indizio di cui il cristianesimo custodisce chiavi interpretative filosoficamente attrezzate a convertire lo smarrimento di fronte al mistero, una speranza di conoscenza.
La Chiesa, quella speranza sembra invece far di tutto per volerla negare. Si impone all’uomo con un linguaggio anti-storico, talvolta criptico, comunque discriminatorio. Offre la salvezza a chi può permettersi di nutrire la propria ricchezza spirituale, ad esempio con le buone letture, ma la nega a chi, povero di spirito lo è perché costretto da un materialismo che lo ha spogliato di quell’unica risorsa che ne garantiva l’eguaglianza etica: la libertà di dare la vita.
Parliamo di una libertà che si compie nella responsabilità delle scelte quotidiane e quindi storiche. È per la libertà dell’essere umano, in fondo, che Cristo si è fatto mettere in croce.
Altro che de-responsabilizzazione dell’essere umano. Il Cristianesimo impone all’uomo – ed alla Chiesa - di esercitare la propria responsabilità nella storia.
Questo non ha nulla a che vedere con la confessionalizzazione delle istituzioni statuali, semmai con il suo contrario.
La Chiesa non minaccia ritorsioni, non impone scelte di voto a parlamentari e governanti. Semmai si appella alla loro responsabilità, ne stimola l’indipendenza, ne promuove la libertà di giudizio e ne incalza l’azione perché, attraverso le scelte compiute, la politica contribuisca a dare a tutti i cittadini le medesime opportunità di auto-realizzazione “etica”.
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