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LA DIPLOMAZIA DI BUSH IN MEDIO ORIENTE
ripubblichiamo un'analisi di Foreign Affairs




(pagina 3)

... la Cina uno “stakeholder responsabile”, secondo la definizione che nel settembre 2005 dette l'allora Vice Segretario di Stato, Robert Zoellick. Analogamente, le relazioni con l'India, dapprima improntate ad un atteggiamento degli Usa  paternalista se non sospettoso, sono andate via via consolidandosi lungo l'asse della convergenza economica e del sostegno alla tecnologia nucleare implementata a New Dehli. Ciò ha invero suscitato non poche critiche nella comunità internazionale, poiché ha nei fatti consentito al paese asiatico una piena autonomia rispetto ai doveri ispettivi dell'Agenzia per l'Energia Atomica (Aiea). Washington insomma ha deciso di permettere all'India margini di libertà rispetto alla sperimentazione nucleare che invece nega ad altri paesi. Ma a tali rilievi gli Usa contrappongono la solidità democratica dell'India come migliore garanzia per la sicurezza globale.
L'azione diplomatica condotta dagli Usa in seno alle istituzioni internazionali a sostegno dell'apertura alle nuove potenze viene ufficializzata al vertice di Singapore, nell'autunno 2006, quando il Fmi decise la redistribuzione delle quote nell'ottica di un più equo bilanciamento del potere economico. In quella sede, un alto funzionario del Dipartimento al Tesoro Usa, Clay Lowery, esplicitò gli obiettivi che da allora gli Stati Uniti avrebbero perseguito. “Ci siamo resi conto – dichiarò infatti Lowery – che se non riconoscessimo il ruolo crescente delle economie emergenti, il Fmi perderebbe di rilevanza e tutti noi rischieremmo di peggiorare il nostro attuale livello di benessere.”
Un aspetto meno evidente ma parimenti cruciale dell'implementazione della strategia americana è la riorganizzazione degli avamposti Usa nel mondo. Il Dipartimento della Difesa, ad esempio, ha radicalmente riscritto la mappa della propria presenza all'estero, a cominciare dalla smobilitazione delle forze stanziate in Europa ai tempi della Guerra Fredda (di cui il Presidente ha annunciato la completa rimozione entro il 2014), ma anche lo spostamento di alcuni contingenti nei nuovi paesi della sfera di interesse americano, dall'Europa dell'Est all'Asia Centrale all'anello del Pacifico.  Analogamente – osserva Foreign Affairs - è in corso una profonda ristrutturazione anche all'interno del Dipartimento di Stato. In un discorso tenuto nel gennaio 2006, alla Scuola diplomatica della Georgeotown Univesrity, il Segretario di Stato, Condolezza Rice ebbe a dichiarare: “Nel Ventunesimo Secolo, nazioni emergenti come India e Cina e Brasile ed Egitto incidono sempre di più sul corso della storia…Il nostro attuale posizionamento globale non riflette abbastanza questo dato. Ad esempio, il Dipartimento di Stato dispone più o meno dello stesso numero di dipendenti in Germania, un paese di 82 milioni di abitanti, ed in India, che ha una popolazione di un miliardo di persone. È chiaro che l'America debba oggi riposizionare le proprie forze diplomatiche nel mondo…nelle nuove aree cruciali per il Ventunesimo secolo.”
Non ci si sorprenda insomma se, tra gli intransigenti oppositori al progetto americano, vi sia proprio l'Europa. Oltre ad aver causato il fallimento del Doha Round, per la totale indisponibilità a sospendere la politica di sussidio al proprio mercato agricolo, l'Europa si ostina a rivendicare uno status di prestigio ed autorità globale che la sua attuale forza economica e demografica non rende invero più giustificato. Tuttavia, detenendo ancora potere di veto nelle principali organizzazioni internazionali, l'Europa può ancora, di fatto, impedire l'integrazione delle nuove potenze. Il gioco diplomatico che l'Europa ha avviato punta ad affermare l'idea che il proprio diritto a “contare” risieda in quel blocco di 25 voti – uno per stato membro – che Bruxelles controlla direttamente. Ovvero di rappresentare una linea comune europea, in materia di sicurezza e difesa. Qualora tale ambizioso obiettivo fosse davvero così a portata di mano, nell'idea di Bruxelles vi è tuttavia un limite oggettivo di coerenza. Perché, infatti, una simile Europa politica dovrebbe votare venticinque volte e gli Usa – pur in ragione dei cinquanta stati impressi sulla propria bandiera – solo una? Partner degli europei in questa resistenza al nuovo multilateralismo Usa sono quei paesi ormai ai margini dell'economia globale che, consapevoli della inevitabilità di una sorte per loro tanto inclemente, tentano di allontanarne il più possibile l'arrivo. Tra i mezzi di cui la resistenza dispone, vi è naturalmente l'ideologia dell'anti-americanismo che, vuoi anche per colpa degli americani medesimi, punta a compattare un'altrimenti assai eterogenea compagine di paesi “non allineati”, tra cui l'Europa ma anche – per ragioni non sempre identiche – la Nigeria o il Brasile o la Russia.
Il saggio può essere consultato in originale sul sito di
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