Gli effetti della recessione americana in Usa e nel mondo
L'opinione di Martin Feldstein dell’università di Harvard
a cura di F. M. Quali effetti avrà la recessione americana negli Stati Uniti e nel mondo? A questa la domanda ha risposto alla rivista Foreign Policy Martin Feldstein, economista di Harvard, secondo il quale la possibilità di una recessione nel 2008 ha ormai «raggiunto il 50% delle probabilità. Anzi, di più». «Segnali negativi continuano ad accumularsi» rileva l'ex consigliere economico del presidente Ronald Reagan, secondo il quale la recessione potrebbe essere più «grave e lunga» del previsto perché «gli strumenti solitamente utilizzati dalla politica monetaria per rovesciare una situazione come questa hanno un effetto assai debole a causa dei problemi del mercato creditizio». Inoltre «il declino del settore immobiliare è oggi molto serio». Gli sviluppi della crisi dipenderanno, secondo l'economista, dalle prossime mosse della Banca centrale americana, della Casa Bianca e del Congresso. Proprio nelle ultime settimane, sia la Federal Reserve che Bush hanno presentato le proprie carte. Lo scorso 30 gennaio la Banca centrale Usa ha tagliato il costo del denaro (dal 3,5% al 3%) mentre il presidente George Bush ha presentato un pacchetto di incentivi del valore di 140 miliardi di dollari per rilanciare l'economia americana. Il pacchetto prevede per ogni contribuente uno sconto sulle tasse sul reddito di circa 600 dollari, 1.200 dollari per le coppie che lavorano e un bonus di 300 dollari aggiuntivi per ogni figlio. L'opinione del professore di Harvard sul piano di Bush è tiepida, in quanto, a suo avviso, si tratta di un tentativo di scongiurare un declino economico nell'immediato ma «non basta restituire soldi ai contribuenti e chiedere loro di spendere di più. L'approccio di incentivare i consumi privati per stimolare l'attività economica non è una strategia efficace per produrre una crescita a lungo termine». Per raggiungere tale obiettivo, prosegue l'economista, le parole chiave sono piuttosto «innovazione e duro lavoro». Guardando indietro alle ragioni della aggravarsi della congiuntura, Feldstein “assolve” parzialmente il presidente della Fed, Ben Bernake, criticato da alcuni osservatori in quanto avrebbe sottovalutato la crisi dei mutui subprime. Secondo l'economista di Harvad non è stato infatti l'unico: «anche gli analisti del settore privato non avevano compreso la portata di quanto stava accadendo nel mercati finanziari». E, in ogni caso, oggi Bernake è consapevole che la Banca centrale americana non può agire da sola e che, per affrontare l'emergenza, è necessario un forte stimolo fiscale poiché la politica monetaria da sola non è sufficiente. A gravare sui mercati si aggiunge il prezzo del petrolio ormai alle stelle (con oscillazioni da 90 e 100 dollari al barile), un aumento che da solo potrebbe portare alla recessione, spiega Feldstein, che sottolinea come questo non sia finora avvenuto perché gli americani, potendo contare sugli strumenti dei prestiti, hanno aumentato i loro consumi in maniera più rapida rispetto a quanto essi guadagnavano. Oggi questo meccanismo non funziona più. Facendo un paragone con il periodo immediatamente successivo alla Seconda guerra mondiale, Feldstein afferma poi senza mezzi termini la gravità della recessione all'orizzonte: «nel primo dopo guerra le recessioni sono state precedute da una combinazione di elevati prezzi del petrolio e aumenti dei tassi di interesse. Oggi abbiamo di nuovo una buona dose di entrambi gli elementi. La Fed ha alzato i fondi federali fino al 6% e il prezzo del petrolio è triplicato» in un paio d'anni. Come dire, i segnali della recessione erano e sono evidenti. Riguardo agli effetti che la recessione americana avrà sulle economie asiatiche in fase di espansione come Cina e India, Feldstein ritiene che non saranno condizionate in maniera significativa. Questo perché l'India non dipende dalle esportazioni verso gli Stati Uniti e lo stesso vale la Cina. «Sebbene l'export di Pechino sia molto dinamico, non rappresenta la forza trainante dell'economia del “Gigante rosso”, che avrebbe altri modi per ridurre gli effetti della recessione americana al suo interno – spiega Feldstein – La Cina finora si è preoccupata di rallentare la sua crescita (per tenere sotto controlli l'inflazione) e, se le esportazioni rall...
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