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FLORIDA E SUDAMERICA. LE SPINE DEI DEMOCRATICI
Polemiche e incertezze. I Democratici rischiano di consegnare lo Stato del Sole, e non solo, a McCain. Le relazioni pericolose con Chavez




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... bero trasformare la parte orientale della città nella capitale del loro futuro Stato. L'uscita di McCain non è in linea con la politica sin qui adottata dagli Stati Uniti che, come quasi tutti i governi del mondo, hanno sinora mantenuto la propria ambasciata in Israele nella città di Tel Aviv. McCain ha confermato il suo sostegno al processo di pace, sottolineando che la situazione sarebbe meno complessa se a Gaza non fosse al potere “un’entità (Hamas) che dichiara di voler distruggere Israele”.

Molti osservatori immaginavano che, una volta vinta la flebile resistenza di Huckabee, McCain iniziasse a stuzzicare i rivali nel tentativo di influenzare l’esito della corsa alla nomination Democratica. In realtà non è chiaro chi tra i duellanti possa preoccupare maggiormente il veterano in previsione delle elezioni novembrine. L’unico fatto certo è che lo stallo democratico ha permesso a McCain di recuperare sensibilmente terreno su Obama rispetto ad un mese fa: da meno cinque a più un punto percentuale secondo la media nazionale dei dati rilasciati dai principali istituti di ricerca, stilata da Real Clear Politics. Curiosamente, il candidato del GOP è in flessione nel confronto con Clinton, che ha ridotto il suo ritardo da McCain da quattro ad un punto percentuale. Dati che riaprono l’ormai ozioso dibattito intra-Democratico su chi tra Barack ed Hillary avrebbe più chances di successo.

La pioggia di critiche che sta investendo i Democratici non si concentra soltanto sull’impropria gestione delle beghe interne al Partito. Persino la crisi sudamericana tra Venezuela, Ecuador e Colombia rischia di trasformarsi in motivo d’imbarazzo. Il Wall Street Journal ha le idee molto chiare su quello che sta succedendo nell’ex giardino di casa Usa e su quello che l’America dovrebbe fare in proposito. Se il presidente bolivariano del Venezuela Hugo Chavez minaccia la Colombia, fedele alleato degli Usa ed attiva nella lotta alle FARC e al narcotraffico, Washington dovrebbe far di tutto per sostenere il presidente colombiano Alvaro Uribe contro l’insidioso rivale. Chavez ha da sempre avuto nell’anti-americanismo e nel controllo statale dell’economia i propri cavalli di battaglia e sta facendo proseliti nel continente, potendo tra l’altro contare sulla sempre più efficace arma petrolifera come strumento di dissuasione.

Cosa aspettano gli Stati Uniti a siglare un accordo di libero scambio con la Colombia per rinforzare i propri legami politico-economici con Bogotà e per dare ossigeno al prezioso alleato? Si domanda il giornale finanziario. Washington invece tentenna, a causa soprattutto dell’ostruzionismo dei Democrats che controllano il Congresso. Nancy Pelosi, la tenace speaker della Camera dei Rappresentanti, frena sull’accordo, bloccata dalle rimostranze dei sindacati e delle fazioni protezionistiche che costituiscono parte integrante della base elettorale del suo Partito. E’ anno di elezioni ed è sconsigliabile inquietare i propri sostenitori. Inoltre, i venti di recessione non incoraggiano la politica e la pubblica opinione Usa a lasciarsi andare ad afflati liberoscambisti. I recenti attacchi al NAFTA (l’accordo nordamericano di libero scambio) sono emblematici al riguardo.  Il trattato,  siglato con Canada e Messico nei primi anni novanta, piace sempre meno agli americani e i candidati alla Casa Bianca hanno già promesso di rivederlo.

Il prestigioso quotidiano è comunque convinto che la responsabilità politica del (per ora) mancato accordo con la Colombia ricada su chi detiene il controllo di Capitol Hill: “Molti esponenti del Partito Democratico intrattengono buoni rapporti con Chavez e si sono arricchiti con il petrolio venezuelano…quegli stessi Democratici che in passato hanno criticato il militarismo di Bush e sostenuto il cosiddetto soft power dell’America, ma che dimenticano che l’apertura commerciale (in questo caso verso il Sud America) sarebbe appunto una forma classica di esercizio del tanto decantato, e poco applicato, soft power.”
 



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