Lo scontro fra George W. Bush e chi (Barack Obama) “cedendo alle false lusinghe dell'appeasement si dichiara disposto a discutere con coloro (gli iraniani) che fomentano il terrorismo e l'instabilità in Medio Oriente”, ha rilanciato il mai sopito dibattito sul rapporto tra fermezza e mediazione in diplomazia. Bush in un senso ha ragione, ma ad Obama è difficile dar torto. Il dialogo con il nemico può diventare uno strumento imprescindibile, ma a fare la differenza sono spesso state le modalità con cui lo strumento in questione è stato impiegato. L'errore di Neville Chamberlain a Monaco non fu il dialogo con Hitler, ma la decisione di consegnargli la Cecoslovacchia, incoraggiandolo a pretendere sempre di più. Parlare con l'Iran, non significa necessariamente cedere agli ayatollah, ma potrebbe essere un modo per far loro intendere quanto rischierebbero se continuassero a minacciare Israele ed a violare i richiami internazionali sul nucleare.
Dov'è finito lo zio Sam? Mentre in Qatar le fazioni libanesi giungono ad un compromesso e ad Istanbul Israele e Siria ricominciano a parlare seriamente, gli Stati Uniti paiono latitare. La posizione dell'amministrazione Bush è nota: gli Usa non trattano con i Paesi (Siria e Iran)o con i movimenti (Hamas ed Hezbollah) considerati ostili e complici del terrorismo islamista. Posizione netta e chiara, che non considera tuttavia l'attuale rapporto di forze in Medio Oriente. L'Iran si è installato a Gaza, grazie al colpo dei suoi alleati di Hamas l'anno scorso. Lo stesso Iran, insieme alla Siria, mantiene una considerevole influenza in Libano, grazie al supporto che incessantemente fornisce ad Hezbollah. Questi sono dati di fatto, e rispetto ad essi, si registrano discrepanze tra Washington e Gerusalemme. Infatti, il governo Olmert, se rispetto all'Iran non si discosta da Bush, nei confronti di Damascosembra avere un'opinione diversa dall'alleato e crede nel negoziato sulle alture del Golan.
Due ricercatori del prestigioso centro studi statunitense analizzano l'accordo raggiunto a Doha e valutano le conseguenze in prospettiva della normalizzazione dell'assetto politico-istituzionale del Libano e delle conseguenze nella regione. L'accordo, secondo gli autori, può essere visto come una sconfitta per il premier Sinora, ma il potere di veto concesso ad Hezbollah rispetto alle azioni del governo potrebbe agevolarne l'istituzionalizzazione, ovvero scoraggiarne l'azione di destabilizzazione perpetrata sino ad ora attraverso le armi. Il potenziale accordo di pace tra Israele e Siria, annunciato in contemporanea, fornisce inoltre elementi per giudicare il fallimento della linea dura voluta dagli Usa nell'area.
Israele e Siria sono in guerra dal 1948. Da allora, si è tentato più volte di raggiungere un accordo di pace, ma senza successo. La ripresa dei negoziati offre oggi elementi di speranza, ma i nodi rimangono. Tra questi, il problema delle Alture del Golan che la Siria vorrebbe riprendersi dopo la vittoria di Israele nella guerra del 1967. L'obbiettivo di Israele è di sottrarre la Siria all'asse “del male”. I negoziati vanno dunque inquadrati nel più ampio contesto regionale e legati, in particolare, agli sviluppi della situazione in Libano.
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