80 delegazioni in rappresentanza di 65 paesi si incontrano giovedì a Parigi per cercare una soluzione definitiva all'impasse afgana. Il principale dossier sul tavolo è quello degli aiuti. Karzai chiede 50 miliardi di dollari che la comunità internazionale è restia ad elargire, soprattutto nelle mani del discusso Presidente. La Conferenza, che sarà presieduta dal Capo dello Stato francese, Nicolas Sarkozy, insieme al Segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, e dal Presidente afgano, si pone l'obbiettivo di discutere globalmente la questione dell'Afghanistan: non solo quale somma stanziare ma come investirla e controllarne l'efficacia.
Pubblicamente nessuno lo ammette, ma in privato i leader dei paesi occidentali ormai assumono la vittoria della democrazia in Afghanistan come un sogno lontano. Questo, almeno, se si considera come “vittoria”, la sconfitta dei talebani e l'instaurazione di un regime di libertà democratica fondato sullo stato di diritto, su un sistema istituzionale coerente, su un livello di civilizzazione nel tessuto sociale comparabile a quello dei paesi rappresentati, sul terreno, dalla Nato. Infatti, le aspettative oggi sono molto meno ambiziose e le strategie sul tavolo per “ridare una speranza” al paese, molto più realistiche.
L'Occidente non può permettersi di abbandonare l'Afghanistan al suo destino, ma il messaggio che la Conferenza di Parigi al Presidente Hamid Karzai deve essere chiaro: la comunità internazionale non continuerà in eterno a finanziare una ricostruzione di cui non si vede ancora traccia. Il governo afgano deve assumersi le sue responsabilità, anche a costo di compiere scelte difficili.
Il dialogo tra Fatah ed Hamas non porterà alla pace con Israele ma al rafforzamento della linea dura sostenuta dall'organizzazione islamica a Gaza.In pochi giorni il Presidente dell'Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas, ha colloqui con il re Abdullah, in Arabia Saudita, ed il Presidente Mubarak, in Egitto. Obiettivo: ottenere il sostegno ad un'iniziativa che punta alla pacificazione del mondo arabo. Il problema è che Abbas non ha avviato un negoziato con Israele – la controparte dei palestinesi – ma con Hamas, l'organizzazione terroristica che continua ad escludere l'ipotesi di riconoscere a Israele il diritto di esistere. Il leader dell'APdenuncia con questa mossa la sua impotenza non solo sull'esercizio dell'autorità a Gaza ma sul controllo dell'intero processo negoziale. Il risultato dell'accordo con Hamas, non sarà la pace con Israele ma il cedimento davanti alle richieste dell'ala dura dell'organizzazione islamica.
Ci sarà un cessate-il-fuoco o un attacco militare a Gaza? Questa la domanda che si pongono oggi I palestinesi della Striscia.Mentre Hamas pone la condizione del ritiro israeliano e la riapertura di Rafah, la risposta da parte che Ehud Olmert ha trasmesso agli egiziani che stanno coordinando la mediazione, non sembra facilitare la sospensione delle ostilità. Per uscire dall'impasse, si dovrebbero realizzare cinque condizioni: la formazione di un governo di unità nazionale a Gaza; la ricostruzione degli apparati della sicurezza palestinese; la riforma dell'OLP; rafforzamento delle strutture democratiche; nuove elezioni, dopo l'insediamento del governo di unità nazionale.
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