di Nicola Scalzini, Critica Sociale n.2/3
Il nostro Paese in questi tempi riceve apprezzamenti dalle Istituzioni internazionali per come ha affrontato la crisi economica e soprattutto per come ha gestito la finanza pubblica. Nella maggior parte dei Paesi industrializzati si sono aperte delle crepe, a volta delle vere e proprie voragini, nei conti pubblici, a causa del ricorso senza limiti al deficit spending per fronteggiare la peggiore crisi del dopoguerra. Noi ci troviamo nel gruppo di testa dei Paesi che cominciano ad uscire dalla crisi, nonostante la politica di rigore e di controllo della spesa pubblica. Ed è questo meritorio comportamento a suscitare l'interesse e la stima degli osservatori. Eppure le richieste di manovre fiscali, ed in particolare di riduzione delle tasse, sono state anche da noi numerose: imprese, sindacati, lavoratori autonomi, partiti ed associazioni, tutti avevano da chiedere sconti e agevolazioni. Esse continuano anche in questi giorni e, pur avendo talvolta fondamento, ignorano quasi sempre di indicare adeguate coperture per evitare i danni dell'aumento dell'indebitamento pubblico. Ma la necessità di interventi di politica fiscale non è eludibile e lo ha confermato lo stesso Ministro Tremonti in questi giorni. La questione può quindi essere posta nei seguenti termini: come ridurre e riequilibrare il carico fiscale perseguendo al tempo stesso l'obiettivo della riduzione del disavanzo pubblico. Siamo al paradosso della botte piena e della moglie ubriaca? Si certo, ma solo se consideriamo l'operazione in modo statico. I due obiettivi stanno insieme se la manovra accelera la crescita liberando nuove e maggiori risorse. In altre parole si tratterebbe di riorientare il bilancio pubblico allo sviluppo, riducendo ad esempio il carico fiscale sulla produzione e modificando quello sui consumi, le rendite, i servizi pubblici, il tutto per migliorare la competitività delle nostre merci, promuovere la meritocrazia a tutti i livelli, favorire l'innovazione nei prodotti e nei processi produttivi, incentivare la ricerca, incrementare gli investimenti in infrastrutture, agevolare fusioni e accorpamenti nel settore delle piccole imprese. Il maggiore sviluppo rende compatibili la riduzione della pressione fiscale e quella dell'indicatore debito/PIL.
Una "svalutazione fiscale" per il tramite di un aumento del gettito IVA
La prima mossa potrebbe consistere in una specie di "svalutazione fiscale" realizzata con un aumento del gettito IVA (accorpandone le aliquote) e una contestuale riduzione dei costi di produzione (meno IRAP e IRPEF), sulla falsariga di quanto ha fatto la Germania della Merkel nel 2007. L'aliquota effettiva nel. nostro Paese (intorno al 15 per cento) risulta di oltre un punto inferiore a quella media europea (oltre il 16 per cento), ma inferiore di molti punti rispetto ai Paesi più industrializzati. Ogni punto di aumento fornirebbe circa 8 miliardi di maggior gettito. Un aumento di tre punti dell'aliquota implicita dell'IVA coprirebbe interamente l'eliminazione dell'IRAP, considerando che una parte consistente di questa imposta (tra il 35 e il 40 per cento) viene pagata dalle amministrazioni pubbliche e pertanto costituisce una mera partita di giro. La manovra darebbe un sostegno non indifferente alle nostre esportazioni, che in questo periodo sono particolarmente sofferenti e rappresentano la causa preponderante della caduta della nostra produzione. Certamente un riassetto fiscale del genere, già sperimentato con esiti positivi in Germania, da sempre vigente negli altri Paesi più avanzati dell'Europa, trova da noi una diffusa avversione anche se priva di ragionate motivazioni. Ogni tentativo di razionalizzare l'IVA e farla convergere sui modelli prevalenti nel resto dell'Europa viene bocciato perché, si afferma, riaccenderebbe l'inflazione e penalizzerebbe i redditi più bassi per il fatto che le aliquote ridotte (quella del 4 e del 10 per cento) riguardano tutto il comparto agroalimentare oltre che la gran parte dei servizi. Sono motivazioni sostanzialmente inconsistenti. In primo luogo perché non siamo in un'economia indicizzata e ogni variazione dei prezzi sarebbe destinata ad un rapido riassorbimento. In secondo luogo, il taglio del carico fiscale sulla produzione (con particolare beneficio per le imprese ad alta intensità di lavoro) ridurrebbe i costi e quindi i prezzi che in taluni casi potrebbe rivelarsi maggiore dell'effetto aumento aliquote IVA per gli ulteriori minori costi connessi alla ripresa produttiva (maggiore utilizzo degli impianti, smaltimento delle scorte, etc.) innescata dal tendenziale incremento delle esportazioni sospinte dalla migliorata competitività di prezzo. Com'è noto, gli esportatori vengono rimborsati dell'IVA incorporata nei beni esportati. Un'ultima considerazione riguarda proprio il settore agroalimentare, oggetto di un eventuale aumento delle aliquote, dove le importazioni superano le esportazioni di circa il 30 per cento. A mio avviso, dovrebbero essere gli stessi operatori a chiedere che il Governo aumenti l'IVA e utilizzi le risorse per sgravare i costi di produzione delle loro aziende, il che equivarrebbe a far pagare prevalentemente ai produttori esteri gli sgravi fiscali di cui essi stessi sarebbero destinatari. In definitiva si potrebbe eliminare quella che agisce come una tassa sull'occupazione (l'IRAP), caricandone il costo maggiore sugli operatori esteri! Lo stesso discorso vale con qualche variante anche sui servizi.
Un'imposta sui redditi più leggera
La seconda mossa riguarda un alleggerimento dell'imposta sui redditi bilanciata da una revisione del sistema pensionistico. Che il carico fiscale sui redditi sia pesante è sulla bocca di tutti, ma l'anomalia sconcertante, spesso trascurata anche da coloro che più lamentano l'eccessiva pressione fiscale sui redditi da lavoro, è la progressività esasperata che caratterizza la cosiddetta curva dell'IRE" con conseguenze penalizzanti nei riguardi di quei lavoratori che per maggiore impegno e professionalità ricevano un aumento di retribuzione. Come dire: il merito va castigato. Ma facciamo un esempio pratico. Un lavoratore con moglie e due figli che percepisce una retribuzione di 28.000 euro lordi, circa 2.150 mensili (poco più di 1.600 euro netti) e 103 euro di assegni familiari e riceva un incremento di salario del 10 per cento, sull'aumento di 215 euro lordi deve versare il 10 per cento per contributi sociali, il 38 per cento di imposta e ovviamente le addizionali locali; ma, poiché sta entrando nella categoria dei ricchi, vede ridursi sia la detrazione fissa, che la detrazione per i carichi di famiglia. Subisce inoltre una decurtazione degli assegni familiari per l'operare di quell'assurdo meccanismo messo in piedi a suo tempo da Ermanno Gorrieri secondo il quale il costo del mantenimento dei figli e quindi l'assegno familiare diminuisce al crescere del reddito, anche per quote modeste. L'operare congiunto di queste trappole porta la pressione fiscale sulla quota aggiuntiva di salario ben oltre il 50 per cento contro il 24,9 della pressione complessiva prima dell'aumento. Tutte queste angherie sono costruite con ineccepibili calcoli ed equazioni, un indubbio divertissement per i tecnici che le hanno costruite e che oltre i connotati vessatori hanno anche il demerito di rendere la dichiarazione dei redditi una delle più complicate d'Europa. Il triplice obiettivo della riduzione del carico fiscale, della progressività e della semplificazione potrebbe essere ottenuto simultaneamente. Basterebbe fare pulizia di tutti gli orpelli e le complicazioni che penalizzano gli aumenti di reddito (come le detrazioni decrescenti), lasciando esclusivamente ad una ragionevole combinazione aliquote - scaglioni il compito di realizzare la progressività.
La necessità di una copertura finanziaria integrale
Ma una operazione del genere, che riguarderebbe la generalità dei contribuenti, lavoratori dipendenti e autonomi, pensionati e imprenditori, dovrebbe avere dimensioni apprezzabili, anche per ridurre significativamente il cosiddetto cuneo fiscale e attenuare la pressione delle rivendicazioni salariali sulle imprese. Anche in questo caso, la copertura finanziaria della riforma dovrebbe essere integrale ed effettiva. Una parte potrebbe provenire da ritocchi di alcune imposte che non interferiscono direttamente con i processi produttivi. Ad esempio, l'aliquota sui redditi da capitale potrebbe essere ritoccata e portata dal 12,50 per cento al 15 per cento, che rappresenta il livello che si riscontra più frequentemente tra i Paesi dell'Unione Europea. Ma la quota maggiore dovrebbe provenire dal contenimento della spesa corrente e in particolare da un intervento sulle pensioni. La spesa pensionistica misurata rispetto al PIL supera di circa 3 punti quella media europea. Di entità analoga è l'apporto dello Stato alle gestioni, cosa che fa dichiarare a qualche amministratore dell'INPS che non occorre alcun intervento sulle pensioni, a motivo che i conti chiudono in attivo. Si tratta di affermazioni furbesche, poiché al netto dei trasferimenti statali l'avanzo del comparto pensionistico si trasforma in un deficit pesantissimo. Esiste dunque un eccesso di spesa che con grande frequenza ci rammentano le Istituzioni europee e che emerge indirettamente anche da altri parametri, a cominciare dall'età media effettiva di pensionamento (58,4 anni per gli uomini, 57,2 per le donne) che ci vede all'ultimo posto tra i Paesi europei, secondo un recente studio dell'EUROSTAT.
La revisione del sistema pensionistico
Ciò che tuttavia desta maggiore perplessità è una specie di trattamento di favore che l'attuale sistema accorda a coloro che anticipano il pensionamento e l'assenza di adeguati riconoscimenti per coloro che ritardano l'uscita dal lavoro a dispetto delle continue affermazioni sulla necessità di disincentivare i pensionamenti anticipati. In altre parole, i contributi versati hanno un rendimento tanto più elevato quanto più precoce è l'età di pensionamento. Certamente, il metodo di calcolo contributivo previsto nella riforma Dini del 1995 elimina tutte queste anomalie e irrazionalità, ma com'è a tutti noto la sua applicazione comincerà tra quattro anni e in misura limitata, dopo quasi venti anni dall'approvazione della riforma; andrà a compimento poco prima della metà del secolo in corso. Accorciare in qualche misura questi tempi esasperatamente diluiti consentirebbe di reperire consistenti risorse da riversare su salari e pensioni ed evitare così che i più giovani siano penalizzati due volte rispetto alle generazioni più adulte: subire tasse più alte oggi e pensioni più basse domani. Quanto ai contenuti di un eventuale intervento, una ipotesi potrebbe essere la seguente: si ripristina la vecchia proposta con la quale veniva fissato a 65 anni l'età per ottenere il pensionamento di vecchiaia. Ma tutti vengono autorizzati ad anticipare l'uscita dal lavoro a partire dal compimento dei 60 anni, con la condizione che le loro pensioni sono calcolate con il metodo contributivo, fatta eccezione per coloro che facciano valere 40 anni di contribuzione. Anche per costoro, tuttavia, si fisserebbe la data minima di uscita a 60 anni. Con queste correzioni verrebbe eliminato l'attuale "premio" a favore dei pensionati precoci, si conserverebbe flessibilità al sistema ampliando le possibilità di scelta dei lavoratori. Sarebbe loro consentito cambiare attività di lavoro e percepire la pensione contributiva, oppure continuare il proprio lavoro fino al completamento dei 40 anni di contribuzione o al raggiungimento dei 65 anni di età, al fine di conservare il metodo vigente nel calcolo della pensione. La fine dell'incentivo al prepensionamento spingerebbe i lavoratori a prolungare l'attività lavorativa senza ulteriori e rigidi interventi legislativi intesi ad allungare obbligatoriamente il periodo lavorativo. In conclusione, le due manovre illustrate, la "svalutazione virtuosa" per potenziare la domanda esterna e la riduzione dell'imposta sui redditi per rialzare la domanda interna, insieme all'attenta gestione della spesa corrente, e all'ampliamento degli investimenti, potrebbero mettere le ali al nostro sistema produttivo e riportare il nostro Paese all'avanguardia nei tassi di crescita dei Paesi europei. E nella prima risalita dalla crisi di questi ultimi mesi si sta già intravedendo questa nuova possibile metamorfosi. E' il momento giusto per accelerare.
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