Ettore Gotti Tedeschi, L'Osservatore Romano, Centro Studi Tocqueville-Acton,
La dinamica degli avvenimenti che modifica giorno dopo giorno gli scenari finanziari è sempre meno interpretabile con criteri razionali. La crisi americana si è estesa ai mercati emergenti e poi in Europa, provocando crolli di quotazioni fino al 15 per cento giornaliero su tutte le Borse europee, asiatiche, latinoamericane. La crisi, non prevista, dei mercati emergenti è legata alla caduta dei prezzi delle commodity - materie prime quali petrolio, gas, metalli - a sua volta provocata dalle previsioni di calo di quei prezzi e, soprattutto, dalle liquidazioni forzate di operazioni speculative sbagliate sulle commodity stesse. Anche gli speculatori perdono, a volte. Questa crisi si è estesa, di riflesso, in Europa sui titoli legati alle commodity. E ha aggravato la crisi bancaria nel momento in cui non c'è certezza che i Governi europei vogliano, sappiano e possano intervenire adeguatamente e in modo coordinato per risolvere il problema. I fenomeni descritti hanno confermato i sintomi di un'altra realtà conseguente, che il mercato teme più di tutti e che incorpora subito nei prezzi delle azioni facendoli crollare: l'inizio di un periodo di recessione e deflazione per compensare troppi anni di finta crescita del Pil. Una crescita fittizia - grazie a tassi troppo bassi - fondata sul debito delle banche e delle famiglie. È questo il temutissimo trasferimento della crisi finanziaria sull'economia reale. Diventa così sempre più evidente che i soli soggetti che possono intervenire per evitare il fallimento del sistema, ricapitalizzando o nazionalizzando, sono i Governi. Gli altri soggetti mancano di strumenti e di credibilità. L'aggravamento della crisi o una sua soluzione dipenderanno quindi da quanto i Governi riusciranno a essere credibili nelle loro decisioni di intervenire sui mercati. I Governi sentono oggi le loro responsabilità. A loro sono dovute le politiche di tassi bassissimi che hanno provocato gli eccessi di credito e le bolle speculative. Hanno tollerato - se non gradito - la crescita del Pil finanziario insostenibile. Ora intervengono. Ma scoprono che non è facile produrre effetti postivi. Gli Stati Uniti, per esempio, hanno preso la decisione, discussa e discorde, di varare un piano di salvataggio da 700 miliardi di dollari che potrà crescere fino a 1.400 miliardi - quasi il 10 per cento del Pil, valore che spiega la dimensione del dissesto - ma con effetti indiretti, ritardati e non risolutivi. Di conseguenza il mercato ha reagito in modo negativo. Il 7 ottobre, invece, la Fed ha deciso di dare credito a breve, direttamente, sostituendosi al mercato. È stata credibile e il mercato ha reagito subito positivamente. Si deve però rilevare che quanto sta accadendo, e accadrà, sui mercati non è razionalizzabile: i mercati sono intossicati e non riflettono i fenomeni come dovrebbero. Si pensi solo che il tasso di volatilità è attualmente di circa il 50 per cento - può cioè crescere o decrescere di questa percentuale nell'arco di un anno - quando a luglio era del 20 per cento e un anno fa del 12-15 per cento. Dopo gli Stati Uniti, tocca ora all'Europa per la quale questo è il momento della verità. L'Europa deve dimostrare di credere alla sua esistenza come entità economica. Altrimenti i suoi cittadini pagheranno un prezzo più alto del previsto. Lo pagheranno da subito, con una recessione reale e con banche nazionalizzate e mal funzionanti. Ma cosa si dovrebbe fare in Europa, dove la crisi è stata soprattutto importata? Anzitutto sostenere le banche senza nazionalizzarle, creando un fondo europeo per la loro ricapitalizzazione. L'iniziativa avrebbe due effetti principali. Porterebbe fiducia fra le banche generando uno scambio di liquidità a costo ragionevole. Sosterrebbe poi il finanziamento di capitale alle imprese, evitando così che la crisi si ampli ancora di più, accelerando la recessione. Forse è anche il momento che la Banca centrale europea sostenga questi interventi con una riduzione dei tassi ben maggiore del mezzo punto tagliato oggi. Persino tagliandoli di un altro 2 per cento. È stato spesso ritenuto che i bassi tassi artificiali, adottati in passato per misure correttive, siano stati origine di distorsioni del mercato ancora peggiori. È vero, ma oggi sembra indispensabile far scendere i tassi interbancari divenuti troppo alti - grazie alla sfiducia imperante fra le banche - che condizionano negativamente sia il credito alle imprese che i mutui a tasso variabile capaci, a loro volta, di ridurre fortemente il potere di acquisto delle famiglie. A breve pare urgente, per arginare i rischi di recessione, avere disponibile credito e domanda. Le distorsioni eventuali potranno venire gestite controllando l'offerta di credito, mentre il problema inflazione pare poter diventare presto meno significativo viste le tendenze deflazionistiche in corso. Si dice in questi giorni: è finita un'epoca. Quel che è realmente finito - almeno per ora - è il laissez-faire finanziario gestito irresponsabilmente. È finita anche la concezione di rischio inesistente nelle attività finanziarie o nei modelli di crescita di valore. E si è certo esaurita la credibilità dei controllori e delle agenzie di rating. Inizia invece un periodo di crisi dell'economia reale. Inizia la nazionalizzazione delle perdite in una nuova forma di statalismo. Ma è anche auspicabile che cominci a funzionare responsabilmente un Governo europeo.
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