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Fortune
What Obama means for business
Nina Easton

Barack Obama ha qualche problema con il mondo degli affari? A riascoltare i suoi discorsi durante le primarie Democratiche sembrerebbe proprio di sì. Fustigatore dei costumi corrotti del grande capitale americano, che ha accusato di operare al di fuori delle regole e di intascare enormi profitti alle spalle dei lavoratori, populista nel denunciare la perdita di posti di lavoro in America a causa degli accordi di libero commercio conclusi dalle amministrazioni precedenti (ovverosia il Nafta), Obama, in un'intervista a Fortune Magazine, addolcisce tuttavia le sue posizioni. “In America la prosperità si è sempre sviluppata dal basso in alto”, sostiene Obama, ricordando di essere sempre stato a favore dell'economia di mercato e ribadendo di non voler intraprendere alcuna crociata contro l'imprenditoria. Egli considera altresì appropriata l'introduzione di correttivi per riequilibrare il bilancio tra la minoranza più fortunata della popolazione ed il resto del Paese. Aumenti nel salario base, maggiori investimenti federali nello sviluppo umano (sanità e istruzione), maggiori regolamentazioni e controlli nel mercato dei capitali e, appunto, uno spostamento della pressione fiscale dalle fasce deboli alle più ricche della popolazione, eliminando i tagli fiscali decisi da Bush a favore delle famiglie con un reddito annuo superiore ai 250.000 dollari. Obama sa tuttavia quanto sia complicato conquistare la Casa Bianca facendo la guerra alle corporations e, dopo aver virtualmente conseguito la nomination, sta mitigando la sua retorica, come dimostrano i suoi contatti con influenti capitani d'industria come Warren Buffet e Steve Jobs della Apple. Ugualmente preziosa la consulenza dell'ex direttore della Fed, Paul Volcker. Inoltre, mettendo a rischio il suo ottimo rapporto con i sindacati, Obama ha nominato il centrista Jason Furman, visto come il fumo negli occhi dai liberals, a capo del suo staff economico. Infine, sempre nel corso dell'illuminante chiacchierata con Fortune, il senatore dell'Illinois ammette implicitamente di aver calcato la mano sulla questione Nafta, in funzione anti-clintoniana.

 
David Whitford

John McCain si mostra molto più riluttante di Obama quando gli si chiede di parlare di economia. Anche Fortune ha dovuto sperimentarlo. Difficile distogliere il senatore dell'Arizona dai suoi argomenti preferiti di discussione: politica estera e sicurezza nazionale. Come ammette il suo chief strategist, Charlie Black, un lobbista Repubblicano di lungo corso, il riacutizzarsi della tensione internazionale può giocare a favore di Mac. L'irruzione della sicurezza nazionale nella campagna presidenziale è quanto di più auspicabile per il veterano del Vietnam, in netta difficoltà sulle issues del momento, soprattutto quando si parla di economia. Meno governo federale, meno tasse e nessuna diffidenza di fronte all'apertura commerciale dell'America. “Erigere barriere commerciali è quanto di peggio potremmo fare per il futuro dell'America.” Questa in sintesi la dottrina economica del candidato Repubblicano. Anche McCain, conquistata la nomination e consapevole della necessità di conquistare voti al centro, sta ammorbidendo le sue posizioni. In particolare, rispetto all'ostica tematica dell'apertura commerciale al mondo globalizzato, considerata dal mondo sindacale come la causa della perdita di milioni di posti di lavoro in America, McCain si mostra possibilista. Pur ribadendo la sua anima liberoscambista, egli prevede sussidi e sostegni ai “perdenti” della globalizzazione. Più complessa la questione fiscale. Dopo essersi opposto ai tagli dell'amministrazione Bush, salvo pentirsi proponendosi di renderli permanenti in caso di vittoria, ora precisa di voler procedere ad una contestuale riduzione della spesa pubblica. Distanziandosi in questo modo da Bush, che non si è mai impegnata sul punto. Insomma, come chiarisce il suo principale consulente economico Doug Holtz-Eakin, il senatore dell'Arizona intende continuare a “parlare chiaro”, ma con una maggiore attenzione al mood, all'umore, del Paese. Difendere le sue idee a dispetto degli indici di popolarità gli ha valso la fama di maverick rispettato da alleati ed avversari, ma gli è sicuramente costato politicamente in passato.
 

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