The Guardian, 29 gennaio 2009,
Secondo quanto riportato in esclusiva dal quotidiano britannico The Guardian, una decisa inversione di marcia nei rapporti tra Stati Uniti ed Iran sarebbe imminente. Il riferimento è ad una lettera che Barack Obama starebbe per indirizzare alla leadership iraniana con l'intenzione di creare le condizioni per imbastire un negoziato diretto tra Washington e Teheran. La lettera, utilizzando toni concilianti, intende simboleggiare la rottura con l'impostazione rigida e severa che ha caratterizzato il doppio mandato di George W. Bush, convinto assertore dell'appartenenza dell'Iran al cosiddetto “asse del male”. Tuttavia, il nuovo corso di Washington non pare intenzionato a sorvolare sul ruolo di sponsor del terrorismo internazionale attivamente giocato da Teheran negli ultimi decenni. Infatti, pur riaffermando la propria disponibilità al dialogo e negando ogni intenzione americana di favorire un cambio di regime a Teheran, Obama invita gli iraniani a cessare il loro supporto all'islamismo fondamentalista.
Il dipartimento di Stato ha lavorato al documento sin dal 4 novembre, giorno dell'elezione di Obama. E' una risposta alla lettera di congratulazioni inviata da Ahmadinejad all'ormai ex senatore dell'Illinois lo scorso 6 novembre. Il testo, che dovrebbe essere indirizzato al popolo iraniano o alla Guida suprema, Alì Khamenei, o ancora assumere la forma di una lettera aperta, evidenzia come Washington non sia intenzionata a rovesciare la Repubblica islamica, ma miri ad ottenerne un atteggiamento più collaborativo. L'Iran, secondo gli estensori del documento, dovrebbe considerare il più elevato livello di vita dei Paesi suoi vicini e valutare la possibilità di imitarli, abbondando lo scomodo ruolo di Stato pariah ed ostile all'Occidente. Forte l'appello alla leadership iraniana perché essa si astenga in futuro dallo sponsorizzare il terrorismo internazionale. La decisione di spedire la lettera non sarà presa prima di ulteriori revisioni del testo che il segretario di Stato, Hillary Clinton, considera una pietra miliare della nuova strategia Usa verso l'Iran. Del resto, già lo scorso lunedì (26 gennaio), durante un'intervista con l'emittente al-Arabiya, Obama si era dimostrato disponibile ed amichevole nei confronti della Repubblica islamica.
Il problema centrale rimane ovviamente il nucleare iraniano. L'America e molti membri della comunità internazionale temono che il programma di arricchimento dell'uranio possa portare il Paese a dotarsi dell'arma atomica, mentre Teheran sostiene di essere unicamente interessata al nucleare civile. La questione è complicata dal rischio che Israele, da anni bersaglio degli strali verbali lanciati dal governo degli ayatollah, anticipi tutti e bombardi le istallazioni iraniane. Nonostante le minacce e le pressioni, la posizione di Teheran è ferma sul punto: il programma nucleare deve andare avanti. Inoltre, la diffidenza iraniana verso Washington è alimentata dal sospetto che i gruppi separatisti in Kurdistan, Sistan-Baluchistan e Khuzestan ricevano aiuti dagli Usa (circostanza negata dal dipartimento di Stato).
L'uomo che Obama ha scelto per intraprendere la perigliosa via del dialogo con l'Iran è Dennis Ross, che sarà presto nominato inviato speciale nel Paese. Un'altra personalità di alto profilo dopo le nomine di George Mitchell per il Medio Oriente e di Richard Holbrooke per il Pakistan e l' Afghanistan. Ross ha infatti avuto un ruolo preminente nei colloqui di pace in Medio Oriente ai tempi dell'amministrazione Clinton, anche se l'ala dura della stampa iraniana l'ha definito “un lobbista sionista”. Come a ricordare, se ce ne fosse bisogno, che la strada delle riconciliazione tra i due Paesi è ancora molto lunga.
Analizzando la mossa diplomatica americana, Simon Tisdall, editorialista di politica Estera del Guardian, ne rileva la potenziale importanza storica. Occorrerà del tempo per archiviare otto anni di errori, misantropia e diffidenza reciproca. Tuttavia, il tentativo di Obama di aprire il terreno alla normalizzazione delle relazioni tra Stati Uniti ed Iran promette di chiudere la cupa epoca di Bush ed Ahmadinejad, segnata dalle recriminazioni e delle accuse incrociate, sostiene il columnist del giornale britannico.
Sempre dalle colonne del Guardian, Julian Borger, diplomatic editor, commenta la vicenda spiegando come l'approccio, apparentemente buonista, del neo-presidente Usa possa alla lunga rivelarsi vincente. Infatti, davanti ad una postura americana conciliante e dialogante un'eventuale persistere nella chiusura e nell'ostilità da parte della leadership iraniana non farebbe altro che evidenziare come il governo di Teheran abbia più da temere da una voce carismatica e moderata che da una ferma e intransigente come quella di Bush.
La ragione è evidente. Un regime che reprime il dissenso interno genera inevitabilmente opposizione e malcontento, anche alla luce della fallimentare gestione economica dell'attuale governo. Quest'ultimo fattore, insieme all'isolamento internazionale nel quale l'Iran è costretto a vivere a causa delle sue frizioni sia con l'Occidente che con i vicini arabi, fa sì che il Paese non sfrutti a pieno le potenzialità di sviluppo economico che la ricchezza di risorse energetiche (gas e petrolio) dovrebbe consentirgli. Lo Stato d'assedio vissuto negli ultimi anni ha peraltro permesso agli ayatollah di fare appello all'interesse nazionale per ricompattare l'opinione pubblica contro un nemico esterno, accusato di voler privare arbitrariamente il Paese della possibilità di accedere all'energia nucleare. Nemico esterno ampiamente identificato con l'amministrazione Bush. Ora che da parte americana vi è predisposizione al dialogo e che l'opinione pubblica internazionale si riconosce maggiormente nella guida americana ed è più incline a seguirla diplomaticamente, Ahmadinejad, e soprattutto Khamenei, potranno ancora agitare lo spauracchio del "Grande Satana" per sopire il malcontento interno?