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Tomas Jermalavičius, International Centre for Defence Studies, 19 gennaio 2008,

L'11 settembre 2001 e le sue conseguenze in Afghanistan e in Iraq hanno scompaginato il lento processo di evoluzione delle forze militari convenzionali verso una modello più aderente ai recenti mutamenti del warfare. Infatti, l'accento posto da allora sulla “guerra al terrorismo” ha distratto l'attenzione di politici e militari dal focus della riflessione che aveva fatto seguito alla fine della Guerra Fredda, ossia la necessità di perseguire la versatilità e la flessibilità delle forze militari convenzionali. Un'esigenza ancor più avvertita nella lotta alle organizzazioni terroriste. Tomas Jermalavičius, studioso del think tank estone, International Centre for D
efence Studies (Icds), si inserisce nel dibattito, sollevando una questione cruciale quanto elementare: i soldati sono adatti a combattere i terroristi? Dipende.

Tra le variabili più significative sono da considerare l'esperienza accumulata da uno Stato nella lotta al terrorismo, il suo sistema politico, il suo quadro normativo, il suo modo di gestire la sicurezza, la natura dell'opinione pubblica nazionale e i valori dei militari. Egualmente importanti, il tipo di minaccia da affrontare, le caratteristiche dei gruppi terroristici, le loro motivazioni ed obbiettivi e le loro modalità d'azione privilegiate. Ad esempio, le forze militari di alcuni Paesi possono contare su una lunga e provata esperienza nel contrasto al fenomeno, dalle azioni di polizia al pattugliamento del territorio per finire con l'assistenza alle vittime dopo un attacco. Ad esempio, i soldati britannici sono stati duramente testati da secoli di gestione della sicurezza all'interno dell'Impero sino alla discussa stagione nord-irlandese. Per non parlare dell'esercito israeliano.

In realtà, in situazioni di emergenza nazionale causate da una minaccia o da un attacco terroristico, spesso i governi fanno ricorso ai militari per ristabilire l'ordine e rassicurare i cittadini in preda al panico. Inoltre, lo strumento militare viene talvolta utilizzato anche a migliaia di chilometri di distanza per decapitare leadership estremiste o comunque considerate ostili e per colpire obbiettivi mirati, soprattutto in aree geograficamente impervie e difficili da raggiungere. In questi casi è innegabile che l'intervento dell'esercito possa giovare. Ciò non toglie che molti fattori concorrano a scoraggiare l'impiego massivo dei militari nel fronteggiare la sfida lanciata agli Stati dal terrorismo interno od internazionale. Innanzi tutto, il terrorismo è un problema connotato socio-economicamente che non può essere in alcun modo ridotto alla dimensione militare. In secondo luogo, i terroristi si servono sovente dei civili per farsi scudo, rendendo complicato e rischioso ogni tipo di intervento dell'esercito. Intervento che farebbe in realtà la felicità degli estremisti, che hanno tutto l'interesse ad alzare il livello dello scontro in una guerra asimmetrica che li vede contrapposti solitamente ad uno Stato, un avversario più forte ma meno agile e legato da vincoli giuridico-morali che ne condizionano l'azione repressiva.

Le forze armate trovano spesso difficile adattarsi culturalmente ai multidimensionali imperativi della lotta al terrorismo, ben diversi dai fattori in gioco in una guerra convenzionale. In primo luogo, i militari sono abituati ad avere dei chiari obbiettivi da raggiungere, limitati nel tempo e nello spazio, ed a prendere decisioni dure, drastiche, irrevocabili. Una forma mentis poco compatibile con il complesso, e lungo, confronto psicologico, comunicativo e simbolico che i governi sono costretti ad ingaggiare con le organizzazioni sovversive. Per non parlare della difficile cooperazione tra membri dell'esercito, dell'intelligence, della magistratura e della diplomazia a causa delle marcate differenze tra le mentalità e i metodi di lavoro degli attori considerati. Infine, nel caso la minaccia alla sicurezza nazionale fosse originata da movimenti interni, il compito di contrastarla potrebbe incidere negativamente sull'ethos militare, fondato com'è sul patriottismo e la difesa dello Stato da minacce esterne. Il dubbio di essere costretti a combattere contro una parte della “propria gente” rischierebbe di corrodere la coesione dell'istituzione.
Così, Jermalavičius azzarda: “l'eccessivo ricorso ai mezzi militari per combattere il terrorismo rischia di essere velleitario come l'utilizzo dei cannoni per colpire le zanzare. Si finisce con l'arrecare disagio alla popolazione, ma un minimo danno agli offensori che si vorrebbe neutralizzare.”

Non stupisce quindi il fatto che molti Paesi ed organizzazioni internazionali usino notevole cautela nell'impiego della forze armate nella lotta al terrorismo, riservando ad esse un ruolo prettamente difensivo (attività di intelligence, protezione di rotte marittime e di infrastrutture critiche, pattugliamento dello spazio aereo, ecc.). Ma le prerogative offensive non vengono certo escluse. In particolare, è diffuso l'impiego dei reparti speciali in stretta collaborazione con i servizi di intelligence. Circospezione, precisione, pazienza, auto-sufficienza, alta consapevolezza delle specificità culturali e degli effetti psicologici dall'uso eccessivo della forza sono tutti elementi centrali nella mentalità che informa questi reparti di elite e che permette loro una migliore comprensione del modus operandi delle organizzazioni non statali e dei loro militanti. Consapevoli di questo, i decisori politici optano per l'utilizzo delle forze speciali anche nelle campagne contro-insurrezionali all'estero, come certificato dal loro recente impiego da parte della Nato in Afghanistan.

In conclusione, lo studioso dell'Icds offre un modesto consiglio ai governi impegnati nel contrasto ad organizzazioni sovversive che adottino mezzi terroristici nel perseguimento dei propri scopi: utilizzare l'esercito con moderazione e selettivamente, ricordando che il compito principale dei soldati è prepararsi a fare la guerra. Chiedere loro un coinvolgimento eccessivo in operazioni anti-terroristiche potrebbe provocare più danni che benefici alla democraticità delle società ed alla coesione delle stesse istituzioni militari.
 

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