www.stratfor.com, 7 Aprile 2009,
Il riaccendersi della violenza in Iraq potrebbe ostacolare seriamente i piani della Casa Bianca per un rapido ritiro americano dal paese. Sotto questo profilo, a molti osservatori non è parsa casuale la decisione del presidente Obama di recarsi in visita (lo scorso 7 aprile) alle truppe Usa nel paese arabo in una fase particolarmente complicata della transizione del dopo Saddam. Secondo gli intenti della nuova amministrazione nei prossimi 19 mesi verrà ritirato il grosso delle truppe statunitensi (rimarranno in Iraq 50.000 effettivi). In particolare, dopo le elezioni irachene che si terranno a fine anno, il processo subirà un'accelerazione in modo da favorire un ridispiegamento di uomini sul teatro afghano. Tuttavia, l'esplosione, a Baghdad, di sei auto-bombe ventiquattrore prima dall'arrivo del presidente Usa ha ricordato quanto sia ancora lunga la strada verso la stabilizzazione e la pacificazione nazionale.
Benché non sia chiara la matrice dell'attentato, l'attacco del 6 aprile ha riacceso le tensioni tra sciiti e sunniti. Le forze di sicurezza americane e irachene hanno compiuto una serie di arresti ai danni dei membri del Consiglio del Risveglio, un gruppo tribale sunnita che ha rotto con al-Qaeda e scelto di collaborare con gli Usa e il governo di Baghdad. Questa mossa inattesa pare sia stata ispirata dalle forze di sicurezza irachene, dominate dalle componenti sciite, che hanno riferito agli americani della presenza di personaggi inaffidabili e pericolosi all'interno del Consiglio del Risveglio. Vi è chi teme peraltro che l'urgenza di colpire il Consiglio sia dovuta al fastidio dell'establishment sciita davanti all'ottimo risultato ottenuto alle recenti elezioni provinciali dal gruppo sunnita. In quell'occasione il Consiglio del Risveglio si è spartito il voto sunnita con il Partito Islamico Iracheno e ha indotto, proprio in virtù del successo conseguito, il premier Nouri al-Maliki a stringere un'alleanza. Tuttavia, la fragilità di ogni intesa tra sciiti e sunniti fa in modo che i due alleati non perdano occasione per indebolirsi a vicenda. Come si nota, la pacificazione nazionale è ben lontana e le forze Usa rischiano di rimanere invischiate in torbide lotte intestine.
Gli Stati Uniti vivono dunque un momento di difficoltà, in un'area che pareva messa in sicurezza, almeno fino a pochi mesi fa. E proprio nel momento in cui Washington ha urgenza di consolidare i successi ottenuti negli ultimi mesi in Iraq, in modo da concentrare il proprio sforzo bellico nella lotta al jihadismo in Afghanistan. L'Asia centrale, infatti, secondo quanto dichiarato da Obama nel corso di tutta la sua campagna elettorale, rappresenta il terreno di battaglia privilegiato per la lotta al terrorismo internazionale. Un progetto che rischia di essere presto rinviato, in quanto sono ancora vive in Iraq le componenti radicali che cercano di minare, giorno dopo giorno, la fragilissima tregua in atto tra sciiti e sunniti. Se dovessero riuscirvi il paziente lavorio diplomatico iniziato dopo l'invasione del 2003 andrebbe in fumo. Oggi la situazione complessiva della sicurezza in Iraq rimane la migliore dal 2003 in poi, ma il riaccendersi dei mai sopiti dissidi tra le due principali componenti demografiche della popolazione ricorda all'amministrazione Obama che nessun piano per il ritiro delle truppe potrà in futuro essere considerato inderogabile.
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