Intervista di Arturo Varvelli a Mario Del Pero, Ispi, 20 aprile 2009,Relativamente all'immagine degli Usa con l'arrivo di Obama, c'è chi ha parlato di una straordinaria capacità di rinnovamento, di "rinascita", ma c'è anche chi, provocatoriamente, ha paragonato il neo-presidente a Gorbaciov: buoni risultati in termini d'immagine ma pochi risultati concreti mentre il declino continua.È chiaro che tempi e modi di uscita dalla crisi economica ci diranno se questo rinnovamento sia vero o solamente cosmetico. Ma non sottovaluterai l'importanza di quello che Obama ha rappresentato ed è riuscito a fare finora. A un'America disillusa e arrabbiata ha offerto un volto, una proposta politica e, più di tutto, un messaggio capaci di ripristinare ottimismo e fiducia, nelle istituzioni e nella politica. A un mondo sempre più ostile ha riproposto il topos forte di un'America capace d'imparare dai propri errori, risollevarsi e ripartire. In altre parole Obama incarna e proietta un mito, quello dell'America, la cui forza e il cui significato politico non sono ancora venuti meno. Di declino degli Usa si parla almeno da tre/quattro decadi. Lo si fa talora a ragione, più spesso in modo superficiale e stereotipato. La forza mitopoietica degli Stati Uniti ha sempre rappresentato un elemento centrale della potenza americana e il suo incrinarsi in questi ultimi anni appariva a molti come il simbolo manifesto del declino degli Stati Uniti: della crisi della loro egemonia. Per ora Obama ha rovesciato questo processo. Se ce lo avessero detto solo tre o quattro anni fa difficilmente ci avremmo creduto.
Sul piano interno le difficoltà di Obama sembrano legate alla necessità di mantenere consenso e risorse per continuare a rimanere leader su piano internazionale.Sono due problemi almeno in parte distinti. Le risorse per promuovere un'ambiziosa politica globale non ci sono e non ci saranno a lungo. Per questo diventa necessario ripensare gli obblighi internazionali degli Stati Uniti e, soprattutto, sollecitare gli alleati a una maggiore condivisione di oneri e responsabilità, a partire dall'Afghanistan. La maggioranza di cui i democratici dispongono al Senato è ampia, ma non tale da bloccare possibili azioni di ostruzionismo. Un partito repubblicano incattivito, arroccato e radicalizzato - come vediamo bene nella campagne anti-tasse di questi giorni - si è finora rivelato capace di fare blocco, agire in modo coeso e creare problemi inattesi all'amministrazione, che certo auspicava e prevedeva una maggiore collaborazione bipartisan. È difficile però credere che ciò possa durare, perché da un muro contro muro - stante lo squilibrio di popolarità e, anche, di forza istituzionale tra le due parti (la Presidenza è decisamente rilegittimata, il Congresso continua ad essere straordinariamente impopolare) - i repubblicani hanno tutto da perdere.
Obama e la nuova amministrazione hanno dimostrato una maggiore attenzione verso la Cina. È una politica nuova, meno europea e più asiatica verso un asse Washington-Pechino (il G2...) o è piuttosto il risultato obbligato di una crescente interdipendenza tra soggetti del sistema internazionale?Entrambe le cose. Tra Cina e Stati Uniti si è venuto a determinare un legame che è tanto speciale quanto peculiare e fragile. L'interdipendenza tra i due soggetti è profondissima, come vediamo bene ogni giorno. Entrambi hanno bisogno dell'altro e, di conseguenza, entrambi hanno leve importanti, a partire da quella valutaria, per imporre le proprie posizioni alla controparte. Ma la Cina rappresenta anche l'unica potenza in teoria capace di contestare il primato statunitense e l'estremo attivismo di Pechino degli ultimi anni - nel riarmo, in Africa e addirittura in America Latina - lo evidenzia bene. Tutto ciò ha alimentato paure e, talora, vere proprie fobie negli Usa, a cui si sono aggiunte le consuete campagne contro la violazione dei diritti umani in Cina. È chiaro che nessuna delle due parti ha interesse a testare le tante fragilità di questa interdipendenza; ma l'interesse spesso non basta a prevenire le tensioni e gli scontri, e una loro escalation è sempre possibile.
Mario Del Pero è Professore di Storia degli Stati Uniti presso Università di Bologna e Professor in American Foreign Policy alla Jonh Hopkins University