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Con un reddito pro capite attorno al dollaro al giorno, l'Africa subsahariana resta la parte più desolatamente povera del pianeta. È per questo motivo, che gli aiuti allo sviluppo hanno sempre buona stampa. Vengono dispensati come l'elemosina sul sagrato della Chiesa. Non si fa caso all'efficienza, non si pensa che andrà a finanziare l'obolo. Si dona per levarsi un peso dal cuore. Ora, che le buone intenzioni servono a poco è una dura realtà con la quale abbiamo tutti fatto i conti. Altra cosa è dire, e spietatamente documentare, che non solo servono a poco: ma anzi fanno proprio male. Dead Aid di Dambisa Moyo, sottotitolo: perché gli aiuti non stanno funzionando e c'è una via migliore per l'Africa, è l'ultimo saggio ad allargare una breccia aperta negli anni cinquanta da Peter Bauer, grande economista ungherese trapiantato in Inghilterra che per primo rilevò gli effetti perversi degli aiuti. Per Bauer, ricorda la Moyo, «gli aiuti interferivano con lo sviluppo dal momento che il denaro finiva sempre nelle mani di pochi eletti, rendendo così gli aiuti un modo per tassare i poveri in Occidente per sussidiare le elites nelle ex colonie».

Esistono altri modi nei quali i Paesi donatori vincolano le loro erogazioni: tanto quanto questo è vizioso, gli altri sarebbero virtuosi. C'è la selezione del finanziamento di uno specifico progetto, o settore beneficiario. E c'è pure la prassi di condizionare il sostegno, all'adozione di determinate politiche. Soldi in cambio di democrazia. Moyo non è ottimista. Sostiene, citando uno studio della banca mondiale, che uno scioccante 85% degli aiuti allo sviluppo finisca impiegato per scopi altri che non quello per il quale erano stati concessi. Soprattutto, «la scomoda verità è che la democrazia, lungi dall'essere un prerequisito della crescita economica, può danneggiare lo sviluppo dal momento che i regimi democratici faticano a produrre legislazione benefica sul piano economico», a causa della rivalità fra partiti e gruppi d'interessi. Non è una considerazione molto popolare, ma esportando la democrazia c'è il rischio di eternare il sottosviluppo.

Sia Collier che Moyo evidenziano come la frammentazione etnica s'infeudi nella forma partito, e l'accesso al governo attraverso libere elezioni non ponga in essere un sistema nel quale «le teste vengono contate, e non tagliate». Al contrario, può facilitare la vittoria del gruppo etnico dominante, legittimandone paradossalmente le ritorsioni contro tutti gli altri. Per la Moyo, vincolare la concessione di aiuti alla garanzia di una competizione politica in Africa ha causato un solo effetto: moltiplicare le elezioni. Va detto che il dispotismo illuminato, come alternativa, è poco credibile: ma ciò che Collier e Moyo ci esortano a fare, è smettere di attribuire eccessiva importanza a qualcosa (la procedura democratica) che al massimo è un dettaglio. Ma qual è l'altra via suggerita da Dambisa Moyo? Anche l'economista zambiana, dottorato a Oxford e otto anni ai piani alti di Goldman Sachs, cerca capitali fuori dall'Africa. Non aiuti, però: semmai investimenti. Moyo crede che i governi africani dovrebbero finanziarsi emettendo obbligazioni internazionali. La necessità di accedere ai mercati di capitale produrebbe essa stessa good governance. Inoltre, Paesi africani dovrebbero combattere il protezionismo agricolo occidentale, che li penalizza. E bisogna scommettere sul micro-credito, come leva per sviluppare l'imprenditorialità.

 

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