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Janiki Cingoli, Cipmo, 8 maggio 2009,

L'Amministrazione USA, come ha confermato per ultimo l'inviato speciale del Quartetto, Tony Blair, sta lavorando ad una proposta complessiva di pace a livello regionale, che il Presidente Obama dovrebbe annunciare al termine delle visite a Washington dei principali leader regionali: il Premier israeliano Netanyahu, il Presidente palestinese Mahmoud Abbas e quello egiziano Mubarak.

La proposta USA dovrebbe prendere le mosse dal cosiddetto documento dei 10, proposto da dieci eminenti personalità statunitensi, fra cui molti degli attuali consiglieri del Presidente, tra cui Paul Volcker, Brent Scowcroft, Zbigniew Brzezinski, Lee Hamilton, James Wolfensohn. Il piano, che pare ripartire dagli accordi delineati a Taba nel 2001 e precisati nel “Modello di Accordo di Ginevra del 2003”,  si muove lungo le seguenti linee: ritiro israeliano ai confini del '67, eccetto gli insediamenti maggiori lungo la linea verde e intorno a Gerusalemme, con corrispondenti scambi territoriali; Gerusalemme capitale dei due Stati, divisa su basi demografiche; adozione di un regime speciale per i Luoghi santi; riabilitazione dei rifugiati palestinesi con una qualche forma di corresponsabilizzazione per Israele; stazionamento di una forza internazionale di pace per una fase transitoria (una garanzia per Israele, volta a evitare che anche la Cisgiordania diventi una nuova base per razzi e missili contro le sue città).

Il piano ritiene altresì necessario favorire la formazione di un Governo di unità interpalestinese, affidando ad Abu Mazen i negoziati sul Final Status, salvo ratifica degli eventuali accordi raggiunti attraverso un referendum, e allenta le condizioni poste dal Quartetto a Hamas, insistendo piuttosto su una tregua di lungo periodo con Israele. In sostanza, si propone un recupero del vecchio accordo interpalestinese della Mecca, patrocinato dall'Arabia Saudita nel 2007. Sotto questo punto di vista, il recente semaforo verde annunciato dalla amministrazione USA verso il finanziamento di un governo di unità nazionale palestinese che includa elementi di Hamas, può essere il segno, importante, che un altro tassello sta andando a posto nel complicato puzzle mediorientale.

Un altro punto di riferimento di Obama è certamente il Piano arabo di pace del 2002, cui egli ha fatto spesso riferimento, come in occasione del suo incontro con il monarca saudita, nell'aprile scorso. Il piano postula il riconoscimento di Israele da parte di tutti gli Stati arabi in cambio della restituzione dei territori occupati nel '67 (con possibili limitati scambi di territori), della creazione di uno Stato palestinese con capitale Gerusalemme Est e di una soluzione “giusta e negoziata” del problema dei rifugiati. La proposta, che è stata votata all'unanimità da tutti gli Stati arabi, inclusi quelli considerati più estremisti, come la Siria e la Libia, offre all'iniziativa del Presidente USA un essenziale punto di riferimento regionale (consentendo di includere Siria e Libano nel progetto diplomatico complessivo), ed ancora la sua proposta di pace all'ampio retroterra degli stati arabi sunniti, sempre più sotto pressione per l'incalzare dello sciismo iraniano.

Tuttavia, Obama è troppo realista per non comprendere che un conto sono le enunciazioni di principio, a cui è necessario tenersi strettamente e senza derogare: l'impegno alla concezione “due stati due popoli”, quello per la creazione di uno Stato palestinese “viabile”, quello per la sicurezza di Israele. Un conto sono i passi concreti da sviluppare sul terreno. Il suo staff ha quindi lavorato intensamente alla individuazione di passi concreti intermedi per ristabilire la fiducia: da parte israeliana, il congelamento degli insediamenti, l'evacuazione degli avamposti non autorizzati, la rimozione dei blocchi stradali e la facilitazione della circolazione dei palestinesi, la attenuazione del blocco di Gaza. A questo corrisponderebbero non tanto passi da parte palestinese, perché oramai Abu Mazen ha già fatto quel che poteva fare in materia di sicurezza e di lotta al terrorismo, ma da parte araba, con aperture progressive ad Israele (incontri con delegazioni della Lega Araba, ripristino delle relazioni interrotte durante la guerra di Gaza etc.), che renderebbero più articolate le stesse proposte contenute nel Piano arabo. In questo senso pare d'altronde muoversi il piano preannunciato da Abu Mazen, in vista del suo incontro con Obama.

E' interessante notare che su questo terreno si possono trovare dei punti di intesa con lo stesso Governo israeliano.

Netanyahu ha già annunciato che è in corso una revisione delle proposte di pace del suo governo, in vista del suo incontro del 17 maggio. Ma lo stesso Lieberman, nella sua prima intervista dopo la nomina a Ministro degli Esteri, ha sottolineato come il suo governo si sente vincolato  al rispetto della Road Map, che, non bisogna dimenticarlo, è una mappa verso “Una soluzione permanente del conflitto israelo-palestinese basata sui due stati” (“A Performance-Based Road Map to a Permanent Two-State Solution to the Israeli-Palestinian Conflict”) , e che essa contiene precise richieste a Israele sul congelamento degli insediamenti e sulla rimozione degli avamposti non autorizzati e la rimozione dei blocchi stradali interni che lo stesso Lieberman si è impegnato a considerare attentamente, sia pure su una base di reciprocità rispetto ai palestinesi.

Parrebbe quindi in corso un cauto e prudente riallineamento israeliano, e probabilmente si sbaglia chi si aspetta clamorosi scontri, nel corso del prossimo appuntamento a Washington.

 

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