Anthony H. Cordesman,
Center for Strategic and International Studies, 15 maggio 2009,
L'incontro tra Barack Obama e il primo ministro Israeliano Benjamin Netanyahu ha sollevato alcune tra le questioni più critiche nell'ambito delle relazioni tra gli Stati Uniti e Israele. E' prematuro esprimere opinioni su come il governo di Netanyahu gestirà le sue relazioni con il mondo arabo o con l'Iran, ma in entrambi i casi la tensione potrebbe inasprirsi se lo sforzo nel costruire un dialogo non si intensificasse da ambo le parti. Gli Stati Uniti e Israele sono alleati, ma questo non significa che abbiano gli stessi interessi strategici. Anzi, spesso per gli Usa il legame con Israele rappresenta tanto un peso e una responsabilità quanto una fonte di vantaggi.
-La sfida per una pace arabo-israeliana
Bisogna esser cauti nel concludere che il primo ministro Netanyahu sia indisponibile a concludere un accordo definitivo, ma è opportuno non illudersi che la pace sia vicina, almeno finché il movimento palestinese rimarrà diviso e i principali dubbi israeliani avranno ragione di esistere. Questo, comunque, non significa che Obama debba rinunciare a un profondo sforzo per porre le condizioni della pace, a concentrarsi su una soluzione che preveda la coesistenza di due Stati e ad impegnarsi per frenare la minaccia del terrorismo e sciogliere le diffidenze storiche dei paesi arabi nei confronti degli Usa.
Obama sa di dover assumere un atteggiamento dialogante e aperto con Netanyahu. I due uomini non hanno certo identità di vedute, ma ciò non implica che gli Usa debbano sacrificare i loro interessi nel resto del Medio Oriente. Se nei prossimi mesi tutto dovesse andare per il meglio, il primo ministro israeliano accetterà di collaborare al nuovo corso negoziale che gli Usa intendono inaugurare, anche grazie al loro inviato nella regione, George Mitchell. Allo stesso modo, accetterà di buon grado una soluzione a due Stati e saprà gestire le uscite, estemporanee e pericolose, del suo ministro degli Esteri. Se questo scenario non dovesse concretizzarsi, il primo incontro tra i due leader rischia di essere solo il principio di una teoria di discussioni “lunghe e schiette” tra due amici che dissentono su come risolvere un problema. Il risultato sarebbe l'inazione, ossia il peggiore dei risultati per la pace in Medio Oriente.
Washington non dovrà comunque scordarsi di premere anche sul versante palestinese. I fallimenti passati nelle trattative per la pace, come noto, sono imputabili ad entrambi gli attori. La corruzione dell'Autorità Nazionale Palestinese è stata una ferita auto-inflitta (non certo imputabile ad Israele!) e il tentativo di trarre vantaggio dagli sforzi del presidente Bill Clinton per la pace si è risolto in una ulteriore sconfitta. La corruzione nell'organizzazione di Fatah è stata la causa prima del fallimento nel creare forze di sicurezza affidabili. Questo vuoto ha poi aperto la strada ad Hamas e quindi alla perdita di Gaza. In seguito è stata la violenza di Hamas la maggiore responsabile della divisione del movimento palestinese, al punto che anche gli israeliani più moderati stanno iniziando a perdere le speranze. E' importante che gli Stati Uniti incoraggino una riforma palestinese, un governo onesto e capace di produrre risultati concreti e ulteriori passi in avanti nella costruzione di forze dell'ordine palestinesi efficienti e responsabili.
Più in generale, Obama deve fare presente in ogni singola occasione che gli Stati Uniti intendono spingere Israele tanto quanto l'Anp a prendere seriamente in considerazione un futuro di pace. Il problema è che per entrambe le parti è praticamente impossibile figurarsi qualsiasi tipo di soluzione di compromesso. Ora come ora, la situazione di conflitto rende la pace impossibile ed è necessario che i vari attori trovino un modo per superare almeno alcuni motivi di disaccordo. La questione demografica, ad esempio, rende il Diritto al Ritorno palestinese impossibile da mettere in pratica. E ancora, nessuna pace potrà essere stabilita in condizioni di sicurezza senza un vasto piano di supporto che ponga le condizioni necessarie allo sviluppo di un'economia sostenibile nella West Bank o a Gaza. Israeliani e arabi stanno già affrontando dolorose rettifiche riguardanti la stabilizzazione definitiva dell'armistizio del 1967, ma che dire di questioni urgenti e quotidiane come l'accesso all'acqua nei Territori palestinesi, il diritto di transito e l'accesso ai porti? Senza la risoluzione immediata di simili problematiche quotidiane, come sarà possibile ricostruire la fiducia reciproca per sciogliere i nodi storici relativi ai confini, allo status di Gerusalemme e ai rapporti tra Israele e il mondo arabo?
In altre parole, la politica mediorientale di Obama, che si preannuncia ambiziosa, dovrà dimostrarsi determinata e risoluta tanto con i leader arabi e palestinesi quanto con un uomo duro come Netanyahu. Egli dovrà, sin dal principio, mostrare che intende portare a termine i suoi progetti di pace e sostenere George Mitchell a qualsiasi costo, anche se ciò dovesse comportare pressioni dall'esterno o problemi di politica interna.
-La sfida Iraniana
Tanto l'amministrazione Bush quanto quella di Obama hanno espresso chiaramente il loro dissenso riguardo un attacco preventivo di Israele all'Iran. I diplomatici, gli ufficiali e le autorità americane hanno parlato di una serie di ripercussioni sugli interessi strategici nel Medio Oriente e nel mondo islamico che potrebbero far seguito a un'eventuale azione militare da parte di Israele. Essi hanno lanciato questo allarme per varie ragioni, nessuna delle quali è legata ad una valutazione ottimistica dei comportamenti futuri iraniani.
Gli Stati Uniti hanno buone ragioni per opporsi a un eventuale attacco di Israele. In primo luogo, vi è la convinzione che uno sforzo diplomatico che preveda pressioni, incentivi e disincentivi, possa ancora ottenere qualche risultato. In secondo luogo, vi è il timore che qualsiasi attacco preventivo -in modo particolare ad opera di Israele- non sortisca alcun effetto. Le infrastrutture nucleari iraniane sono troppo disperse sul territorio, le informazioni sono troppo incerte ed ogni singolo attacco finirebbe soltanto col rallentare o posporre l'attuazione del programma per un breve periodo, fornendo all' Iran delle giustificazioni valide per mettere in atto un piano ben più distruttivo.
Una cosa è condurre un'irruzione mirata contro un singolo reattore siriano, oppure portare a termine un'azione a breve-ampio raggio con l'obbiettivo di colpire il reattore di Osirak (in Iraq nel 1981), un'altra è danneggiare seriamente i principali tre obbiettivi militari iraniani. Ciò comporterebbe un'operazione aerea, passando per territorio arabo, che Israele non ha mai concepito prima d'ora. Significherebbe attaccare un Iran forte di una ampia gamma di mezzi per vendicarsi: Hezbollah, Hamas, pressioni sull'Iraq e sull'Afghanistan e minacce nel Golfo. Infine, ciò porrebbe senz'altro le condizioni per giustificare un contrattacco iraniano o jihadista su Israele e sui regimi arabi più moderati.
Gli Stati Uniti non possono nemmeno chiamarsi fuori totalmente da qualsiasi azione anti-iraniana di Israele, per quanto stiano esprimendo la loro opposizione per mettere in guardia Israele. In caso di attacco infatti, la maggior parte degli arabi e degli iraniani accuserebbe Washington di complicità con Israele. Gli Stati Uniti rischiano di trasformarsi in un bersaglio, senza trarre da questa situazione beneficio alcuno. In caso di un successo israeliano potrebbero essere chiamati a svolgere un ruolo di controllo militare nel Golfo e in Iraq. In caso di fallimento, invece, le conseguenze che graverebbero sugli Usa potrebbero rivelarsi disdicevoli, sia a livello strategico che di immagine.
D'altro canto, gli Usa non hanno abbandonato la loro opzione militare, ma si tratterebbe di un'operazione di dimensioni ben maggiori di quella israeliana. Dovrebbe infatti includere attacchi continuativi e persistenti e richiedere un impegno costante e gravoso in un momento in cui gli Stati Uniti si trovano impegnati nella gestione delle crisi irachena e afgano-pakistana. Anche in riferimento alla situazione iraniana il presidente Obama deve mostrare autorevolezza, parlare a chiare lettere dei rischi per la stabilità dell'area e delle gravi conseguenze sul rapporto strategico Usa-Israele che potrebbero far seguito ad un'operazione unilaterale dello Stato ebraico contro Teheran.
Obama deve prepararsi a rassicurare il Netanyahu e gli alleati arabi su cui gli Usa possono contare in Medio Oriente in merito a tre questioni: se la diplomazia dovesse fallire, gli Stati Uniti sarebbero pronti a fornire ai propri alleati ogni tipo di assistenza possibile, non ostacolerebbero lo sviluppo ulteriore del programma nucleare israeliano ed equipaggerebbero i propri alleati con difese aeree e missilistiche. A un certo punto, il Presidente Obama dovrà anche avvertire l'Iran che se intende dispiegare missili nucleari avrà a sua volta delle armi americane puntate contro, che ogni minaccia a Israele o ai Paesi confinanti accrescerà la minaccia che già pesa sull' Iran e che ad ogni attacco da parte dell'Iran seguirà una rappresaglia. La diplomazia, il dialogo e le relazioni amichevoli sembrano delle opzioni di gran lunga migliori per rapportarsi a Teheran ma tutto il mondo- e non solo Israele- deve essere consapevole di quali potrebbero essere le alternative.