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Ugo Finetti

È naturale che Enrico Berlinguer venga oggi ricordato in toni apologetici nonostante il giudizio degli storici lo abbia ridimensionato. Lo stesso direttore della Fondazione Gramsci, Silvio Pons, nel suo ultimo libro, “Berlinguer e la fine del comunismo”, ne ha riconosciuto limiti ed errori. Ma ci sono due ragioni di fondo – una tattica e l'altra strategica - che inducono oggi i principali dirigenti postcomunisti, da D'Alema a Veltroni e Fassino, a celebrare Berlinguer. La ragione tattica consiste nell'usare Berlinguer e la sua “questione morale” per ribadire l'alleanza con il movimento di Di Pietro sia che si voglia fare un sistema di alleanze recuperando l'estrema sinistra, sia facendo blocco con l'Udc sia perseguendo la “vocazione maggioritaria”. Quale che sia la futura strategia del Pd – con Franceschini o con Bersani – nulla deve però cambiare tra Pd e Idv. Ma questa ragione tattica non deve mettere in ombra quel che più conta e cioè che nel momento in cui la sinistra italiana a guida postcomunista ha rifiutato la socialdemocratizzazione è nel berlinguerismo che ha cercato il suo futuro. Che cosa sarebbe questo tipo di sinistra italiana dopo la scomparsa del comunismo nel 1991 e del socialismo nel 1993 senza di lui? E' intorno ai tre capisaldi della politica berlingueriana – compromesso storico, eurocomunismo, “questione morale” – che essa ha ritrovato identità e spinta propulsiva. Che cosa si è dimostrato essere il Pd ancora in questi giorni se non la coabitazione tra comunisti e cattolici, una collocazione internazionale né comunista né socialdemocratica, una contrapposizione allo schieramento alternativo accusato di indegnità? Per comprendere la debolezza dell'attuale identikit della sinistra italiana che ruota intorno al Pd e al postcomunismo va ricordato perché quei tre capitoli di Berlinguer – pur con motivazioni serie e risultati – furono tre fallimenti.
Il “compromesso storico” ebbe il merito di assicurare una tenuta politico-istituzionale nel momento in cui Dc e Psi non erano più capaci di stare insieme. Ma se quella politica si esaurì bisogna risalire al vizio di fondo. E cioè la sinistra italiana, ovvero Pci e Psi (fino a Craxi), hanno sempre avuto un “problema” con la società italiana. Il “problema” si chiama economia di mercato. Psi e Pci ogni volta che hanno intrapreso la marcia verso la Dc e la maggioranza di governo per dichiarare che non rinunciavano alla “fuoruscita” dal capitalismo hanno evocato il pericolo di destra e l'antifascismo. Così fece Nenni negli anni sessanta e così fece Berlinguer negli anni settanta agitando il fantasma di un colpo di stato addirittura di tipo sudamericano. Il “compromesso storico” fallì perché Berlinguer non era ideologicamente in condizione di proseguire una politica governativa avendo scioperi e manifestazioni di massa contro. Quando nel 1979 esce dalla maggioranza di “unità nazionale” spiega che impegnandosi in una politica di risanamento economico “avremmo contro di noi piazze, assemblee operaie, manifestazioni … Saremmo simili a quelli che propongono un disarmo unilaterale”. L'incapacità di emanciparsi dal potere d'interdizione dell'estremismo sindacale fu la causa della fine di quella politica il cui lascito è un presuntuoso cattocomunismo che si attribuisce un ruolo salvifico nella società dei consumi.
Il secondo fallimento fu l'”eurocomunismo” che si risolse in un “nuovo internazionalismo” che nel prendere le distanze dall'Urss non volle però contaminarsi con la socialdemocrazia occidentale. Proprio nel momento di massima polemica con l'Urss, nel 1981 dopo la condanna del colpo di stato comunista in Polonia, Berlinguer non incontrò i leader del socialismo democratico, ma fece un viaggio in America Latina. Oggi sono noti i verbali agghiaccianti di quegli incontri con i dittatori di Cuba e del Nicaragua che esaltano le incarcerazioni degli oppositori. Al ritorno Berlinguer non denunciò quei regimi sudamericani, ma li esaltò e si scagliò contro l'intera socialdemocrazia europea perché, scriveva nel dicembre 1981, essa si sarebbe occupata solo dei lavoratori sindacalmente organizzati e “poco o nulla degli emarginati, dei sottoproletari, delle donne”. Di “eurocomunismo” quindi negli ultimi anni di Berlinguer non si parlò più e rimase il lascito di questo fumoso “nuovo internazionalismo” che, indipendentemente dall'Urss, prefigurava un irriducibile antioccidentalismo capace di chiudere gli occhi di fronte agli orrori delle dittature se esse erano “antimperialiste”.
Infine la “questione morale”. E' il lascito più importante in quanto di fronte all'esaurirsi, come egli disse, della “spinta propulsiva” della Rivoluzione d'Ottobre, Berlinguer seppe tempestivamente e con molta efficacia caratterizzare in modo nuovo la “diversità” comunista sostituendo il richiamo a Lenin e agli obiettivi rivoluzionari con l'onestà in un mondo politico corrotto. Perché fu un fallimento? Perché era notoriamente una falsità. Quando scoppiò lo scandalo delle tangenti a Parma nel 1975, Berlinguer riunisce d'urgenza la segreteria e dichiara che “occorre ammettere che ci distinguiamo dagli altri partiti non perché non siamo ricorsi a finanziamenti deprecabili”. A metà degli anni '70 il Pci è in condizione di poter fare a meno dei soldi sovietici e di autofinanziarsi. La rendicontazione della cosiddetta “amministrazione straordinaria” veniva fatta a Berlinguer a quattr'occhi da chi la gestiva nella segreteria nazionale e riassunta in un foglietto che poi il leader del Pci immediatamente stracciava. Nel corso della partecipazione alla maggioranza di governo la “riserva” raddoppia passando da 4 miliardi del 1975 a 7 miliardi e 912 milioni a fine esercizio 1978 e poi nel 1979 raggiunge gli 8 miliardi e mezzo. La leggenda di Berlinguer è in definitiva la favola di un partito comunista italiano che non sarebbe stato né comunista né italiano e cioè che avrebbe vissuto senza mai “sporcarsi” con il mondo comunista e la realtà italiana.
 

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