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E venne il giorno di Peter Mandelson. Il 28 settembre, secondo giorno della Conference, il ministro delle Attività Produttive ha preso la parola in sessione plenaria ed ha entusiasmato la platea. Il suo interevento ha avuto un tale risalto mediatico da oscurare l'apparizione congiunta Brown-Zapatero che ha fatto seguito allo speech dell'ex commissario europeo. Un discorso emotivamente e tecnicamente perfetto, a conferma delle doti carismatiche ed istrioniche “dell'architetto del New Labour”, che ha ridonato entusiasmo ai delegati, invitandoli a lottare per conquistare un quarto mandato di governo. Un successo notevole se si pensa che  Mandelson rimane una tra le figure più controverse del partito, al punto che Tony Blair è giunto tempo fa a sostenere provocatoriamente: “il mio lavoro sarà finito quando il Labour imparerà ad amare Peter Mandelson.” Il fatto che Brown gli abbia riservato un ruolo di primo piano nel suo governo conferma l'autorevolezza e il peso preminente che il Lord conserva nel New Labour, anche se, dall'esterno, incuriosisce l'atteggiamento diffidente che accompagna spesso Mandelson nel suo partito.
Ne abbiamo chiesto conto a Stephen Twigg, chair di Progress e direttore di Foreign Policy Centre, prendendo spunto da un suo contributo apparso sul Guardian nei primi giorni della Conference, dove egli invita i suoi compagni a mettere fine alle distruttive contrapposizioni tra “Brownites” e “Blairites”. Twigg ci ha risposto divertito: E'innegabile che Blair e Mandelson abbiano fatto la Storia, pur commettendo qualche errore e, se vogliamo, è un fatto positivo che nel partito esista una discussione su quanto realizzato in passato e su quanto vi sia di migliorabile. Alcuni ritengono che ci sia molto da ridiscutere, mentre io credo che la via tracciata nel 1997 abbia prodotto dei grandi risultati per il nostro paese. Ad ogni modo, mi sento di rassicurare sul fatto che oggi nel Labour regni un clima più sereno, improntato al rispetto reciproco e alla convinta collaborazione. Le lacerazioni si vanno componendo. La maggioranza dei nostri sostenitori apprezza quello che ha fatto Blair e si aspetta che il governo difenda la sua eredità e lotti per convincere gli elettori a consegnargli il quarto mandato consecutivo. Infine, vorrei  ricordare come lo stesso Gordon Brown sia stato tra gli artefici della prima ora della svolta del 1997 e dunque la persona adatta a proseguire l'opera.
Dopo il trionfo assembleare, Mandelson non ha comunque rinunciato a partecipare ai lavori organizzati da Policy Network, il prestigioso think tank di cui è presidente. Tema del dibattere, il ruolo dell'Unione europea nel sistema internazionale multipolare, soprattutto alla luce del crescente peso acquisito dal G-20 come forum principale della governance globale.
Philip Stephens, firma del Financial Times, abbozza un quadro a tinte fosche, definendo inquietante la situazione attuale dell'Ue davanti a uno scenario globale in rapido mutamento. Bruxelles non sembra avere una politica condivisa su alcunché. Non esiste una linea comune verso l'assertività russa, né rispetto alle opportunità e ai rischi legati all'impetuoso sviluppo economico cinese. Persino in riferimento alla delicata issue ambientale gli europei paiono perdere il vantaggio accumulato sugli altri attori negli anni novanta, quando per primi avevano mostrato una certa sensibilità rispetto ai danni prodotti del riscaldamento climatico. Ora, tra incoerenze e proclami, la palla sta passando a Stati Uniti e Cina, grazie all'impegno personale di Barack Obama e alle mezze promesse di Hu Jintao. E la marginalizzazione dell'Europa potrebbe estendersi presto ad altre questioni, poiché l'alleato americano, deluso dall'incapacità decisionale dell'Ue, si dimostra sempre più propenso al dialogo bilaterale con la Cina rispetto alla dimensione economica ed ambientale e con la Russia in merito a disarmo e sicurezza internazionale.
Meno pessimistica l'impostazione di Mandelson, forse memore dei suoi recenti trascorsi nell'Ue. Come ministro della Gran Bretagna, ha esordito, amo difendere gli interessi del mio paese all'estero, ma non posso tuttavia ignorare che tutti gli Stati, noi compresi, hanno tratto enormi benefici dalla globalizzazione dell'economia e continueranno a farlo non appena la crisi che stiamo vivendo sarà terminata. Dirò di più, il nostro interesse alla salute dell'economia e alla vitalità degli scambi commerciali internazionali dovrebbe essere se possibile superiore a preoccupazioni più immediate come la tutela dell'export britannico e dei posti di lavoro ad esso collegati. Un'uscita sorprendente per un uomo politico spesso accusato di seguire tendenze protezionistiche e tale da indurci a chiedere delucidazioni:

Lord Mandelson, come intende spiegare la sua posizione ai lavoratori e alle imprese britanniche?

In modo molto semplice e sono convinto che gli operatori economici britannici comprendono il mio punto di vista: se il sistema degli scambi globali non funziona a dovere, non vi è un'adeguata produzione di ricchezza e di conseguenza le economie nazionali ne risentono. In un sistema internazionale funzionante, le imprese britanniche, piuttosto che quelle francesi o italiane, hanno invece l'opportunità di competere e di prosperare. Essere a favore dell'apertura commerciale è un modo indiretto per sostenere le economie nazionali. E' quello che molti protezionisti miopi non comprendono. In quest'ottica, un rafforzamento della nostra membership europea è fondamentale per condurre e vincere la battaglia contro le tentazioni protezionistiche e particolaristiche ancora largamente diffuse nel mondo. La formula del G-20 sta avendo successo perché rispecchia al meglio il cambiamento in senso multilaterale della vita internazionale e in un simile contesto l'Europa, se possibile coesa, deve far sentire la propria voce.

Qual è l'alternativa ad un rafforzamento dell'Unione europea?

Per delle medie potenze come Gran Bretagna, Francia, Germania e Italia sarebbe velleitario auspicare un ritorno della power politics, soprattutto di fronte a titani come Cina ed India. Con quale autorevolezza i singoli stati europei potrebbero parlare al mondo? Ad esempio, è ormai riconosciuta la necessità di prevedere regole stringenti e condivise per regolare i mercati finanziari. Per supportare con forza il loro punto di vista in un'arena allargata come il G-20 gli europei non hanno altra scelta se non quella di presentarsi compatti sotto le insegne dell'Unione. Le intollerabili divisioni intra-continentali del passato devono finire e, probabilmente, proprio il crescente pluralismo introdotto con il G-20 nei complessi processi decisionali internazionali avrà il benefico effetto di costringere la capitali europee a raccogliere le forze e a operare congiuntamente.

Durante la campagna elettorale per le ultime elezioni europee David Cameron ha promesso di sottoporre a referendum il trattato di Lisbona, l'accordo che mira a ridisegnare le istituzioni Ue in sostituzione della Costituzione europea bocciata dal “no” dei referendum francese e olandese del 2005. Quali le conseguenze sull'impegno della Gran Bretagna in Europa nel caso il Labour dovesse perdere il potere?

Da questo punto di vista, una nostra eventuale, e sottolineo eventuale, sconfitta non dovrebbe complicare le cose. Le elezioni si terranno nella primavera 2010, quando il trattato di Lisbona sarà presumibilmente già entrato in vigore. In quel caso, gli euro-scettici di Cameron non potrebbero fare molto e non credo che si prenderebbero la responsabilità politica di azioni avventurose. Essi hanno promesso, nel momento in cui dovessero entrare a Downing Street, di sottoporre a referendum il trattato e di impegnarsi per una vittoria del “no”, ma solo a patto che l'accordo non fosse già stato ratificato da tutti gli altri Stati membri. Considerando che in Irlanda si vota tra pochi giorni (il 2 ottobre) per la ratifica ed è probabile una vittoria del “sì”, non vedo grossi spazi di manovra. Certo, se gli irlandesi rifiutassero il trattato, l'euro-scetticismo riprendere vigore a Londra e un eventuale avvento dei Tory al potere rappresenterebbe un problema per la coesione dell'Ue.


(In effetti, il 2 ottobre la stragrande maggioranza degli irlandesi -il  67.1%- ha votato a favore del nuovo trattato di Lisbona. Ora si attende la piena ratifica di Polonia e Repubblica Ceca, ma l'ostacolo più arduo è stato sicuramente oltrepassato. La vittoria del “sì” al referendum irlandese, rilancia inoltre la candidatura di Tony Blair come primo presidente dell'Unione europea. La sua candidatura è sostenuta fortemente da Nicolas Sarkozy ed anche Angela Merkel sembra prossima a lasciar cadere alcune pregiudiziali. Secondo il Telegraph, l'annuncio potrebbe essere dato addirittura entro la fine del mese di ottobre, ndr)

(continua)

A cura di Fabio Lucchini  
 

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