Il tema della responsabilità dei governanti di fronte all'elettorato è all'ordine del giorno in tutte le democrazie consolidate. Secondo James Purnell, giovane e brillante deputato laburista, la democrazia deve essere intesa come la disciplina del potere nell'interesse pubblico. Sollecitato dall'editorialista di punta del Guardian, Polly Toynbee, durante il dibattito organizzato dal giornale progressista britannico in seno alla Conference, Purnell ha osservato come il rinnovamento del sistema democratico sia stato l'orizzonte del New Labour nei dodici anni di governo. Quando i Tories invocano un cambiamento del sistema politico-finanziario intendono ridimensionare il ruolo dello Stato, ma la ricetta che hanno in mente risulta superata dagli eventi. Il New Labour ha saputo andare oltre la concezione Stato-centrica che ha condizionato per anni la sinistra europea ed ha costruito un'inedita alleanza tra governo e cittadini che gli ha permesso di conquistare la fiducia della classe media per tre mandati. Ora, prosegue Purnell, il leader conservatore David Cameron chiede un ritorno del laissez faire in economia e del mero individualismo a livello sociale, ma la risposta alla crisi è un'altra: rafforzare la società e le istituzioni mediante un leale rapporto tra governo e cittadini; lo Stato non deve ritirarsi ma funzionare meglio. David Miliband non sembra curarsi delle voci di corridoio che lo vedono in lizza per la sostituzione di Gordon Brown. Secondo un recente sondaggio pubblicato dal quotidiano The Observer, il ministro degli Esteri e il ministro della Giustizia, Jack Straw, sarebbero i candidati premier preferiti dall'elettorato e in grado di ridurre sensibilmente il divario di 10-15 punti percentuali che attualmente separa il Labour dai Tories. Tuttavia, Miliband sembra ignorare le ambizioni personali e partecipa con generosità alle iniziative della Conference, interagendo continuamente con i delegati e con la stampa. Sempre durante l'incontro promosso dal Guardian, il ministro difende il governo, in grado a suo dire di minimizzare il peso della crisi economica globale sulla vita dei cittadini e di indicare al mondo una via di uscita (a Brown è stato recentemente assegnato un riconoscimento internazionale per la sua azione di contrasto alla crisi economica, il “World Stateman of the Year”). Il governo britannico si sta muovendo secondo una logica che non si può definire strettamente statalista, una logica del resto estranea alla natura del New Labour. Ma tutto ciò non è stato percepito dalla gente, che mostra segni di disaffezione verso la politica e il partito di governo. Sta a noi recuperare il supporto dei cittadini, insiste Miliband. La svolta che abbiamo inaugurato nel 1997, puntando sulla meritocrazia, sul servizio pubblico di qualità, sul rafforzamento delle comunità locali, si è rivelata corretta. Forse siamo stati lenti a sintonizzarci sugli umori del Paese colpito dalle difficoltà degli ultimi mesi, ma questo non inficia la bontà della nostra visione di fondo, che deve essere tuttavia aggiornata e rilanciata. Il New Labour non deve accettare la rappresentazione caricaturale delle sue politiche messa in atto dagli avversari politici. Grazie all'accento su empowerment e decentralizzazione abbiamo avvicinato lo Stato ai cittadini, mantenendo una pressione fiscale accettabile senza smantellare il Welfare State, un punto di equilibro da sempre difficile da raggiungere e mantenere, sia da destra che da sinistra. Ora la questione è: esistono la forza e la volontà per riproporre questo modello progressista vincente in Gran Bretagna e in Europa? Il ministro degli Esteri ha avuto poi modo di concentrarsi sulle questioni internazionali che più stanno a cuore a Downing Street. Intervenendo ad un dibattito serale promosso dalla Fabian Society, Miliband si è soffermato sui nodi critici che complicano la vita internazionale e ha ribadito la sua forte propensione europeista. Viviamo un periodo di intensi accadimenti che assottigliano la barriera che tradizionalmente separa affari interni ed internazionali. La guerra in Afghanistan, la recessione, la proliferazione nucleare, il cambiamento climatico e le vicissitudini dell'Unione europea rappresentano temi di dibattito interno ed ogni governo nazionale dovrebbe essere in grado di fornire ai cittadini risposte chiare, orientate da valori e da interessi ben precisi. Miliband decide di focalizzarsi sull'Ue, un argomento di forte dibattito e divisione in Gran Bretagna, ma sempre di più anche nel Continente. Dobbiamo seguitare ad essere europeisti, attacca Miliband, pur riconoscendo che Bruxelles necessita di una profonda riforma. Le istituzioni comunitarie non funzionano come dovrebbero e l'Unione non ha un peso reale negli affari globali. Ma l'idea europea conserva valore e fascino e il nostro mercato comune rappresenta una risorsa economica troppo importante per essere sacrificata in nome dell'euro-scetticismo, del protezionismo e del particolarismo.La determinazione con cui il ministro persegue il rafforzamento dell'Ue emerge anche nelle risposte, a tratti sorprendenti per un politico britannico, alle domande che gli poniamo a margine del dibattito:
Ministro, l'europeismo da Lei professato con tanta convinzione non rischia di creare qualche difficoltà nella special relationship tra Londra e Washington?
Voglio rispondere menzionando un caso pratico. Come sapete, nei giorni scorsi sono venute alla luce delle rivelazioni su un ulteriore sviluppo del programma nucleare iraniano e il governo di Teheran ha messo in scena dei test missilistici altamente provocatori nei confronti della comunità internazionale. In questa come in altre situazioni del genere, ovviamente, lavoreremo gomito a gomito con gli Stati Uniti, ma, attenzione, il radicamento crescente della Gran Bretagna nelle istituzioni europee garantisce la nostra intenzione di condividere opinioni e decisioni anche a livello comunitario. Dirò di più, il nostro desiderio è quello di agire da facilitatori nelle relazioni tra Usa ed Europa, in modo che l'approccio occidentale alla questione iraniana e alle altre maggiori crisi internazionali si fondi su solide basi di fiducia e cooperazione. Dobbiamo consegnare alla Storia le incomprensioni del passato. E i segnali che giungono da Berlino, Parigi, Roma e Madrid sono incoraggianti.
Lei ha spesso parlato della necessità di ancorare la politica estera a solidi principi e valori. Cosa intende?
Anche in questo caso vorrei prendere spunto da un esempio concreto. In passato, il solido legame che unisce la Gran Bretagna agli Stati Uniti è diventato lo spunto per dei violenti attacchi in merito alla presunta complicità del mio paese rispetto ad alcune pratiche disdicevoli messe in atto dall'esercito americano in Iraq. Noi abbiamo sempre affermato il nostro rispetto per i diritti umani fondamentali e condannato ogni abuso, anche se commesso dalle forze combattenti occidentali. La forza della nostra democrazia, ed anche di quella americana, sta nella capacità di fare ammenda per gli errori commessi e di operare affinché non si ripetano. Non mi risulta che le dittature operino in questo modo. E in Iraq, comunque la si pensi rispetto all'intervento anglo-americano, fino al 2003 esisteva una feroce dittatura. Ora non più, anche se i problemi chiaramente rimangono. Tornando al presente, parliamo di Afghanistan. Qualcuno paragona la situazione delle truppe occidentali a Kabul a quella dell'Armata rossa dal 1979 in poi. E' ridicolo! Mosca invase l'Afghanistan seguendo una logica neo-coloniale, noi per liberare quel paese dall'oppressivo governo talebano, assecondando peraltro una scelta condivisa da gran parte della comunità internazionale dopo i fatti dell'11 settembre. Rimanere in Afghanistan è una scelta costosa e dura da sopportare, sia per la popolazione locale che per le nostre truppe, ma dobbiamo perseverare perché sono in gioco i nostri principi e i nostri interessi, che convergono nel rifiuto di cedere al delirante ricatto terrorista di al-Qaeda. La nostra politica estera deve essere aperta e responsabile. Un complesso mix di attività di intelligence e di public diplomacy (uno stile diplomatico trasparente e aperto al controllo dell'opinione pubblica nazionale e internazionale, ndr), orientato verso obiettivi chiari, razionali ed eticamente condivisibili. Cosa voglio dire? Prendiamo il caso della Georgia, che io considero un paese indipendente che non deve essere più considerato parte dello spazio ex sovietico. Per questo motivo Tbilisi dovrebbe avere il diritto all'integrità territoriale e all'ingresso nella Nato. L'Occidente, ma direi l'intera comunità internazionale, avrebbe il dovere di farsi carico dei diritti della Georgia, a prescindere dalle reazioni stizzite di qualcuno (della Russia, ndr). Sono consapevole del fatto che prendere di petto situazioni del genere potrebbe ingenerare pericolose tensioni nel breve periodo. Tuttavia, alla lunga, ciò servirebbe alla creazione di un sistema di regole condivise, senza veti e senza condizionamenti, e senza speculazioni sulle reali intenzioni di un intervento (diplomatico o militare) o di un mancato intervento da parte dei diversi attori. Una volta stabiliti degli standard realmente condivisi, non potrà più accadere quel che si è verificato dopo l'invasione irachena del 2003, quando il mondo si è drammaticamente lacerato in due fazioni contrapposte. Uno scenario da incubo.
Quale crede possa essere il futuro delle ex grandi potenze come la Gran Bretagna, o di medie potenze come l'Italia, in un'arena globale dove stanno emergendo attori (Cina, India e Brasile) che possono attingere a risorse infinitamente maggiori?
Non vorrei discutere della politica estera italiana perché non mi compete, ma, in un futuro non lontano, mi piacerebbe anche evitare di parlare di politica estera puramente britannica. Infatti, per dialogare alla pari con i giganti della Terra credo sia necessaria una politica estera genuinamente europea. Mi spiego. E' evidente che nel medio-lungo termine finiremo con il muoverci in un sistema internazionale compiutamente multipolare, con la rapida crescita di macro-attori quali l'India e il Brasile. Tuttavia, nel futuro prossimo credo che potremmo assistere alla nascita, de facto, di una sorta di G-2 tra Stati Uniti e Cina. Ecco, io vorrei che l'Europa trovasse la forza di partecipare, unitariamente, a questo consesso informale. Auspico insomma un G-3, nel quale l'Unione europea sia in grado di interagire autorevolmente con le due superpotenze che presumibilmente deterranno la leadership globale nei prossimi anni.
(continua)
A cura di Fabio Lucchini
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