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A cura di Fabio Lucchini
A Teheran chi manifesta pacificamente contro una tornata elettorale considerata illegittima viene brutalizzato da bande paramilitari, torturato e processato. A Yangon, Aung San Suu Kyi viene pretestuosamente condannata ad ulteriori diciotto mesi di detenzione, in modo da impedirle di partecipare ad elezioni politiche che stravincerebbe. A Tripoli, Muhammar Gheddafi sbeffeggia la Gran Bretagna, accogliendo come un eroe nazionale un uomo condannato per il terribile attentato aereo di Lockerbie e rilasciato per motivi umanitari da Londra.
Cartoline dal ventunesimo secolo, in un mondo dove i regimi pseudo-democratici, o dichiaratamente autoritari, si permettono di sbandierare ai quattro venti i loro misfatti. Infatti, se in passato il mondo poteva far finta di non sapere, oggi l'opinione pubblica internazionale ha pieno accesso a notizie e filmati e può rendersi conto di come la libertà e la giustizia vengano ovunque impunemente calpestate.
Sono ormai trascorsi vent'anni dalle rivoluzioni pressoché incruente del 1989 e dalla nascita dell'ordine unipolare e assistiamo ad una decisa ripresa dell'autoritarismo in tutto il mondo. I dittatori al potere infatti sembrano rinfrancati dall'incapacità della comunità internazionale nel sanzionarli. Una situazione che spegne l'indignazione per i delitti perpetrati e che induce all'assuefazione. Siamo forse giunti al termine di quella che Samuel Huntington definiva la “Terza ondata” di democratizzazione? Il celebre politologo americano faceva riferimento alla diffusione del metodo democratico nel mondo, a partire dalla rivoluzione dei garofani in Portogallo nel 1974 per arrivare al crollo del socialismo reale in Europa dell'est alla fine del decennio successivo.
Le precedenti “ondate” da egli individuate riguardavano la generalizzata liberalizzazione dei regimi politici avvenuta a cavallo tra diciannovesimo e ventesimo secolo e dopo la seconda guerra mondiale. Da notare che queste due fasi di democratizzazione sono state seguite da altrettanti periodi di riflusso autoritario, coincidenti nel primo caso con l'età dei fascismi in Europa e nel secondo con l'instaurazione di dittature in America Latina, Asia, Africa ed Europa orientale tra gli anni cinquanta e settanta del secolo scorso.
Tutto ciò per ammonire chiunque nutrisse velleità di ottimistico determinismo storico: la democrazia non è l'approdo inevitabile, poiché essa può essere minacciata e rovesciata. E' una conquista da difendere. Un insegnamento che sarà bene ricordare, se è vero che le libertà che l'Occidente ritiene universalmente accettate vengono tuttora minacciate e negate ovunque nel mondo.
Una volta sconfitto il comunismo, accartocciatosi sulle sue contraddizioni, il mondo occidentale si è illuso che i suoi modelli politici e culturali si sarebbero diffusi automaticamente in ogni angolo del globo. In realtà, l'autoritarismo, sebbene screditato in molte realtà, non si è esaurito, è sopravvissuto agli anni novanta e si sta nuovamente consolidando negli ultimi tempi.
Il fenomeno in corso non è sfuggito a Freedom House, organizzazione non profit statunitense attiva dal 1941 nello studio e nel monitoraggio dei sistemi democratici e dittatoriali e nella denuncia delle violazioni dei diritti e delle libertà. Attraverso case study sui singoli Stati e l'analisi comparata delle situazioni in diverse aree geopolitiche è d'altronde facile comprendere come il fronte anti-democratico si stia consolidando e come non vi sia alcuna evidenza a supporto della tesi che il pluralismo sia destinato comunque ad imporsi.
La sfida è invece assai insidiosa perché il nuovo autoritarismo fa ricorso a modalità di controllo che appaiono significativamente più sofisticate rispetto al passato. Cina e Russia costituiscono due esempi mirabili sotto questo punto di vista. A differenza dei dissidenti anti-comunisti degli anni settanta e ottanta, coloro che si battono per i diritti civili in questi ed altri Paesi ricevono meno attenzione dal mondo occidentale, dove essi si aspetterebbero di trovare gli naturali alleati per la loro difficile battaglia. Il motivo è semplice: i sistemi autoritari contemporanei sono più difficili da comprendere nel loro funzionamento intrinseco rispetto ai totalitarismi e alle giunte militari che caratterizzavano la Guerra fredda.
E' innegabile che dal crollo della Cortina di ferro le democrazie parlamentari siano cresciute di numero a livello globale e che i regimi dichiaratamente autoritari vengano, almeno a parole, stigmatizzati per i comportamenti arbitrari nei confronti dei propri cittadini/sudditi. Una considerazione appare peraltro doverosa: sono spesso i Paesi più poveri e meno attrattivi in termini di risorse naturali e di interesse geo-strategico ad essere biasimati e isolati dalla comunità internazionale, mentre governi non certo illuminati (il Medio Oriente è pieno di esempi) ma “interessanti” sotto altri profili paiono essere quasi esenti da critiche. Il panorama è dunque meno rassicurante di quanto possa apparire ad uno sguardo distratto.
Inoltre, spesso dei regimi che si definiscono genericamente democratici e si ammantano dei rituali elettorali e rappresentativi adottano nella pratica uno stile di governo verticistico e repressivo. Oltre un decennio fa, un acuto analista come Fareed Zakaria, attualmente direttore di Newsweek International, notava, in un articolo per la prestigiosa rivista Foreign Affairs, come molti governi regolarmente (o quasi) eletti ignorassero i limiti del proprio potere e deprivassero i cittadini delle libertà fondamentali. Già nel 1997, a otto anni dal crollo del Muro di Berlino, si assisteva insomma al ritorno massiccio del dispotismo sulla scena internazionale. Zakaria parlava di democrazia illiberale. Una insidia subdola e difficile da riconoscere perché in Occidente, nei secoli ventesimo e ventunesimo, la democrazia procedurale (libere elezioni) è sempre stata considerata un tutt'uno con i concetti cardine di Stato di diritto e rispetto delle libertà civili.
Convinzioni evidentemente non così radicate fuori dall'Europa e dal mondo anglo-sassone. Zakaria ammoniva, con precoce intuizione, sui rischi legati alla diffusione globale di regimi caratterizzati dalla mancanza di costituzionalismo liberale e di genuina partecipazione della società civile negli affari pubblici e incitava la comunità internazionale ad impegnarsi maggiormente sul terreno delle libertà piuttosto che insistere sull'ossessione elettoralistica. Un processo elettorale, se vuoto, non è sufficiente alla costruzione della democrazia.
Nel 2009, come sottolineano gli esperti di Freedom House, la sfida strisciante che l'autoritarismo pone alla democrazia non è ancora stata compresa appieno. Motivo per il quale, insieme a Radio Free Europe/Radio Liberty e Radio Free Asia, il prestigioso think tank ha sviluppato un'analisi della vita politica interna di cinque Stati chiave (Russia, Cina, Iran, Venezuela, Pakistan) per evidenziare le strategie e i metodi che i regimi al potere stanno utilizzando, all'interno e all'esterno dei propri confini, a detrimento dello sviluppo democratico e della tutela dei diritti fondamentali degli individui e delle comunità.
Al lavoro collettivo hanno partecipato autorevoli studiosi, specializzati per aree geografiche: Javier Corrales, professore associato di Scienza Politica all'Amherst College, Massachusetts, ed esperto di studi latino-americani, Daniel Kimmage, analista di politica internazionale e ricercatore di storia russa ed islamica, Joshua Kurlantzick, corrispondente per Time, New Republic e American Prospect, coinvolto nel China Program del Carnegie Endowment for International Peace, Abbas Dilani, direttore del Centro di studi iraniani alla Stanford University, Perry Link, professore emerito di studi est-asiatici alla Princeton University e Rashed Rahman, tra i più esperti ed ascoltati giornalisti pakistani.
Undermining Democracy è il titolo del rapporto che ne è scaturito e che tenta di sondare le dinamiche interne a Paesi che rivestono una notevole importanza geopolitica ed economica nello scacchiere globale. Si tratta di attori diversi tra loro: L'Iran, retto da una Repubblica condizionata pesantemente dal clero sciita; la Russia, una cleptocrazia avvolta da una perniciosa nostalgia per il glorioso passato sovietico; il Venezuela, governata da un caudillo che si ispira al modello castrista; la Cina, un sistema capitalistico autoritario che si affida al Partito unico; e infine il Pakistan, minato dal peso dei militari nelle politica e minacciato dall'estremismo per troppo tempo tollerato.
Secondo gli ultimi dati presentati sempre da Freedom House, che cura dal 1972 un rapporto mondiale sulle libertà civili e i diritti umani, stiamo vivendo un'epoca di recessione politica, non solo economica. Nei vari Stati analizzati (quasi duecento!) i parametri che misurano il rispetto dei diritti politici e delle prerogative di democrazia sostanziale da parte dei diversi governi registrano un deterioramento costante negli ultimi tre anni. Un evento senza precedenti in trentasette anni. Il rapporto considera Cina, Russia ed Iran come Stati autoritari consolidati, mentre descrive Venezuela e Pakistan come parzialmente liberi o semi-autoritari, ma sicuramente indica come i cinque regimi stiano attivamente contribuendo, consciamente od inconsciamente, ad indebolire l'appeal della democrazia nel mondo.
I regimi che guidano il tentativo di ripresa del dispotismo su scala mondiale stanno lavorando per rimodellare il significato stesso di democrazia. Una versione mistificatoria del concetto viene propinata alle pubbliche opinioni nazionali grazie a media accondiscendenti e condizionati pesantemente dai governi. Da Pechino a Teheran, da Caracas a Mosca, televisioni di Stato compiacenti glorificano i risultati dei loro governi sminuendo e denigrando i modelli pluralisti occidentali, sostituiti da adattamenti relativistici ad uso propagandistico interno. E così non stupisce l'insistenza del premier russo, Vladimir Putin, sulla curiosa nozione di Democrazia sovrana, che sarebbe la modalità di governo più adatta alle esigenze di ordine e sicurezza della Russia post-sovietica. E che dire della pretesa dei vari Hu Jintao, Hugo Chavez e Mahmoud Ahmadinejad di considerare i propri esecutivi pienamente democratici? La necessità di mantenere uno stretto controllo sul discorso pubblico spinge gli autoritarismi contemporanei ad un attento monitoraggio dei sistemi di comunicazione telematica. Oscuramento dei siti internet sgraditi e persecuzione dei dissidenti informatici sono all'ordine del giorno.
Forse ancora più efficace è un'altra tecnica di manipolazione del consenso e minimizzazione del dissenso adottata con particolare successo da Pechino a Teheran, passando per Mosca. La tendenza a presentare la Storia attraverso una lente nazionalista e parziale permette ai governi di inculcare nelle nuove generazioni un sentimento di ostilità nei confronti della democrazia all'occidentale e del mondo esterno. In Cina libri di testo autorizzati dal governo evidenziano come l'enfasi occidentale sul rispetto dei diritti umani rappresenti un mero artifizio retorico per screditare Pechino sulla scena internazionale e per indebolire la coesione della società cinese. Eventi tragici della storia nazionale come il Grande balzo in avanti, la Rivoluzione culturale e il massacro di piazza Tienanmen vengono ignorati o trattati di sfuggita. Agli studenti russi viene passato il messaggio che Stalin sia stato un leader senza macchia e che il Grande terrore degli anni trenta, che causò milioni di morti, debba essere spiegato come un accidente dovuto agli sconvolgimenti politico-sociali di quell'epoca. Da parte sua, il sistema scolastico iraniano continua a diffondere tra le giovani generazioni gli insegnamenti della cupa ideologia teocratica che regge il Paese da trent'anni. E con un certo successo, se si considera che, a prescindere dal ricorso a massicci brogli elettorali, la riconferma di Ahmadinejad alla presidenza ha messo in luce l'esistenza di un solido sostegno popolare alle su politiche scellerate.
Ma al di là del riadattamento dei vecchi metodi repressivi alle nuove esigenze, è l'abile utilizzo del cosiddetto soft power per tutelare i propri interessi, non solo in patria ma anche all'estero, che segnala la pericolosità della sfida cultura che è stata lanciata. Il politologo americano Joseph Nye sostiene da tempo che la capacità di una grande potenza di affermarsi sulla scena internazionale sia legata alla sua abilità di persuadere, convincere ed attrarre altri tramite risorse tangibili (risorse finanziarie e naturali) e intangibili (cultura, valori e istituzioni). In quest'ottica, il successo del soft power dipende meno dal potenziale militare di un determinato Paese e più dalla sua reputazione e dal suo peso economico nella comunità internazionale. Nye aveva come riferimento gli anni novanta e pensava che Stati Uniti ed Europa potessero far valere la loro capacità di attrazione valoriale ed economica nel mondo globalizzato. Oggi sembra che siano invece altri ad utilizzare in maniera più appropriata quel potere d'attrazione.
La Cina detiene innegabilmente la leadership di questo processo. Pechino ha stretto, o sta stringendo, legami strategici e commerciali con numerosi governi in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente. Il presupposto fondamentale è il perseguimento di interessi economici o politici comuni nello scacchiere internazionale, escludendo ogni interferenza nelle reciproche questioni interne. Nessuna fastidiosa retorica a proposito della legittimità democratica dei governi, nessuna polemica sul mancato rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini/sudditi. Soltanto affari remunerativi, soprattutto per le élites locali, dalla Birmania al Sudan. E così, il modello misto cinese (autoritarismo più economia di mercato) fa proseliti nel mondo come credibile alternativa al pluralismo politico.
Nonostante le differenze tra i regimi descritti, i tratti comuni colpiscono l'attenzione degli osservatori. Ciascuno di essi è retto da un gruppo relativamente ridotto che utilizza il potere e la ricchezza dello Stato per servire i propri interessi e, secondariamente, per guadagnarsi il supporto delle masse. Poco importa se entusiastico o passivo. Nella gestione oligarchica del potere gioca un ruolo rilevante la promozione di mentalità anti-democratiche, all'occorrenza propagandabili oltre confine: una sottile e insidiosa risposta alla roboante “esportazione della Democrazia” tentata dall'amministrazione Bush nel corso del suo primo mandato. Tuttavia, l'assenza di adeguati contrappesi istituzionali che costringano i governanti a rispondere ai cittadini del proprio operato apre la strada all'arbitrarietà e alla corruzione diffusa. Infine, e qui è rintracciabile un elemento di grave ed endemica debolezza dell'autoritarismo, l'opacità dei processi elettorali, lo stretto controllo sui media, la repressione di ogni tentativo di associazione e mobilitazione della società civile, oltre ad una interpretazione restrittiva dalla rule of law, rendono questi sistemi intrinsecamente instabili e soggetti a ricorrenti crisi di legittimità, alla lunga meno gestibili rispetto alle difficoltà interne patite dalle democrazie liberali. E' un'evidenza empirica che la storia del novecento sta a dimostrare.
Interessanti al riguardo le evoluzioni recenti di Venezuela e Pakistan. Nel primo caso, in un paese dalla radicata tradizione pluralista, il presidente Chavez, forte del sostegno popolare, si è impegnato a fondo per rimuovere i contrappesi istituzionali al suo potere, riuscendo ad acquisire un controllo pressoché assoluto delle risorse petrolifere nazionali, ad espandere il ruolo dello Stato nell'economia e ad aumentare esponenzialmente le spese militari. Dopo il tentato colpo di Stato anti-Chavez del 2002, il vivace mondo dell'informazione venezuelano (che per la verità ha avuto un ruolo di primo piano in quegli eventi) ha subito la pesante ritorsione delle autorità, che ne hanno limitato pesantemente la libertà di manovra. Inoltre, un recente referendum ha rimosso ogni limite costituzionale alla possibilità per Chavez di ricandidarsi alla carica presidenziale. L'arbitrarietà delle decisioni governative e lo scarso impegno nella lotta al crimine, fanno sì che a Caracas (in modo non dissimile da Mosca o Teheran) l'unica maniera di aver garantita la sicurezza personale sia una buona connessione politica. Il Venezuela ha infine assunto i caratteri tipici di un Petro-stato, che deve la sua stabilità quasi esclusivamente ai livelli del prezzo del petrolio sui mercati internazionali. Troppo poco per chi pretende di essere il continuatore degli ideali della rivoluzione bolivariana che nel diciannovesimo secolo liberò l'America Latina dal dominio straniero.
Come ammettono gli esperti di Freedom House nel loro studio, il Pakistan differisce dagli altri casi nazionali proposti. Dopo la caduta del generale Pervez Musharraf e l'eliminazione di Benazir Bhutto, il Paese è oggi retto da un governo civile frutto di elezioni considerate regolari, ma il lascito culturale della dittatura militare (non sgradita all'Occidente) non può essere spazzato via in pochi mesi. Aldilà delle tendenze oligarchiche e nepotistiche della nuova classe dirigente, ciò che preoccupa è il peso che l'islamismo retrivo e militante mantiene nella società e le sue infiltrazioni nell'ancora influente gerarchia militare. Nel caso proseguissero le difficoltà dell'attuale esecutivo, potrebbe concretizzarsi uno scenario da incubo: la nascita di un'autocrazia religiosa nel cuore dell'Asia, pronta ad irradiare la sua nefasta influenza in direzione del vicino Afghanistan e a destabilizzare il miracolo democratico indiano.
La consistente minaccia rappresentata dal neo-autoritarismo non deve indurci ad operare semplicistici parallelismi con il passato. La Russia e la Cina di oggi non possono essere giustapposte all'Urss di Brezhnev o alla Repubblica popolare di Mao. In entrambi i paesi, l'uomo della strada ha la possibilità di accedere ad un maggior numero di informazioni, può viaggiare e persino consumare quei beni voluttuari un tempo demonizzati. Soprattutto, Mosca e Pechino sono entrate a pieno titolo nel sistema globale di scambio commerciale e vi hanno ampiamente prosperato.
Nel ventunesimo secolo nessun governo, tranne forse quello Kim Il Sung in Corea del Nord, crede di poter mantenere a lungo un controllo assoluto sulla propria società di riferimento. Meglio “dirigere” il discorso pubblico, selezionare le notizie e le informazioni utili e cooptare, blandire o intimidire le elite (solitamente economiche) che potrebbero organizzarsi in opposizione. La priorità è insomma il controllo politico. Ogni attore sociale disposto ad accettare la supremazia del gruppo di potere dominante e ad assecondare le direttive che provengono dall'alto sarà libero di perseguire in totale autonomia i propri interessi particolaristici. Lo stesso discorso vale grosso modo per il resto dei corpi sociali: gli amici del regime vengono periodicamente premiati, i nemici puniti; i neutrali esposti ai capricci e alla volubilità del Principe.
Da questo punto di vista, il funzionamento dei media cinesi é paradigmatico. In linea con l'enfasi del Partito comunista cinese sul modello capitalistico autoritario, i media tradizionali e quelli online devono operare secondo i criteri di efficienza proprie delle imprese commerciali (qualità, efficienza, raccolta della pubblicità). Tuttavia, allo stesso tempo, il mondo dell'informazione è soggetto alle direttive politiche delle autorità in merito alle notizie da sottolineare, a quelle da ridimensionare o da censurare. Le fortune o le disgrazie professionali (e personali) di giornalisti e editori si giocano sulla loro propensione ad assecondare le linee-guida delle autorità. Un sapiente uso della censura che troverà presumibilmente imitatori in ogni angolo del pianeta. Infatti, l'intero settore dell'informazione è sostenuto attivamente dal governo, che mette in campo gli ultimi e più avanzati ritrovati della tecnologia per amplificare sulla scena globale i successi dello sviluppo cinese e sottolineare l'efficacia dei metodi messi in campo per conseguirlo.
In conclusione, se durante la Guerra fredda non esistevano grossi dubbi sulla natura dei regimi non democratici, la situazione attuale appare assai meno nitida. Stati dalle conclamate tendenze autoritarie sono pienamente integrati nell'economia globale. Essi non tollerano il dissenso in patria, ma auspicano (almeno ufficialmente) un mondo multipolare dove le loro visioni possano coesistere pacificamente con le altre. Partecipano attivamente alla vita delle istituzioni internazionali, talvolta con risvolti paradossali: rimane nella memoria la clamorosa elezione della Libia alla presidenza della commissione Onu per i Diritti umani nel 2003. Per tornare all'attualità, la bizzarra richiesta di smembramento della Svizzera avanzata della stessa Libia, in qualità di presidente della sessantaquattresima sessione dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite, oltre a strappare un sorriso fa luce su un processo in atto da tempo e dai più sottovalutato. Si tratta del tentativo di delegittimare, mediante gesti clamorosi o proposte di risoluzioni deliranti, quegli organismi internazionali creati nel secondo dopoguerra per incoraggiare lo sviluppo dei valori democratici in tutto il mondo. La comunità democratica internazionale, come detto, denuncia gravi imbarazzi nella comprensione del fenomeno. In primo luogo, le stesse Nazioni Unite, già in debito di credibilità, rischiano di rimanere vittima del tentativo in atto di erodere il sistema delle regole internazionali costruito nelle decadi passate.
Questo non significa che non ci sia spazio per il confronto. Mosca e Pechino sono desiderosi di trattare con l'Occidente, ma limitatamente a questioni economiche o relative alla sicurezza internazionale. Se tuttavia Stati Uniti ed Europa dovessero seguitare ad accontentarsi di una simile forma limitata di ingaggio finirebbero per cadere in una trappola insidiosa. Per utilizzare un linguaggio economicistico, il vantaggio competitivo dell'Occidente risiede nella rule of law, nelle sue società aperte e nella tolleranza sedimentata nei secoli. Allo stesso modo, un sistema internazionale che abbia come orizzonte il rispetto per i diritti degli individui è di gran lunga preferibile all'inquietante alternativa per la quale l'autoritarismo globale sta combattendo la sua nefasta battaglie delle idee. E' nell'interesse della democrazia salvaguardare le qualità che la differenziano dalle tirannie e non cedere ad un'interpretazione esasperata del relativismo culturale che viene strumentalizzata a fini politici dai suoi avversari.