Stratfor.com, 2 febbraio 2010,
Le recenti polemiche tra Cina e Stati Uniti relative all'annunciata vendita di armi americane a Taiwan si inseriscono in una lunga teoria di contrasti tra Washington e Pechino sulla questione. E non potrebbe essere altrimenti, perché la Cina considera Taiwan una sua provincia dissidente. In realtà, si tratta di uno stato indipendente che persegue una sua politica estera e di difesa. Nonostante il riconoscimento della Repubblica popolare come legittima espressione della statualità cinese (riconoscimento avvenuto in seguito alla politica di riavvicinamento voluta da Richard Nixon negli anni settanta) il dossier Taiwan continua ad avvelenare i rapporti sino-americani, peraltro deteriorati dai recenti episodi di censura ai danni di Google e di
hackeraggio anti-Usa (Stratfor.com). La piccola appendice insulare dell'Impero di Mezzo, pur esautorata (logicamente) nel 1971 del suo seggio alle Nazioni Unite a vantaggio della Cina continentale, è riuscita a resistere negli anni alle pressioni operate da Pechino per favorire una sua riunificazione alla madrepatria. In questo lasso di tempo, i successori di Chiang kai-shek hanno mantenuto gli storici legami con gli Usa, anche se Washington (a partire dalla fine degli anni settanta) non riconosce più ufficialmente la Repubblica di Cina di Taiwan. Ad ogni modo, la presenza militare americana nell'area e l'esistenza di una legge del Congresso che impegna gli Usa a difendere Taiwan in caso d'attacco non hanno certo attenuato negli ultimi decenni l'irritazione cinese.
Per tornare all'attualità, nel caso l'accordo di vendita delle armi americane a Taiwan si concretizzasse, Pechino minaccia di elevare sanzioni unilaterali contro le società statunitensi attive in Cina che fossero coinvolte nella produzione dei suddetti armamenti (tra cui Boeing, Lockheed Martin, Raytheon e United Technologies Corp). Il messaggio apparentemente è chiaro: la Cina è pronta a punire economicamente gli Stati Uniti nel caso essi rafforzassero i loro legami politico-militari con Taiwan. Tuttavia, aldilà della contingenza, è possibile intravedere un risvolto strategico più ampio dietro la presa di posizione di Pechino.
Il casus belli di Taiwan rappresenta un'ulteriore occasione per rimarcare il ruolo paritario che la Cina vuole ritagliarsi nei confronti degli Usa. Sinora, l'America è stato l'unico paese in grado di elevare sanzioni economiche efficaci come contromisura a scelte sgradite di natura politica compiute da altri attori del sistema internazionale. Nessun governo può rimanere insensibile davanti alla prospettiva di vedersi precluso l'allettante mercato della prima potenza al mondo. Ebbene, la Cina sembra decisa a sfidare gli Usa sul loro terreno, minacciando di chiudere alle aziende americane una fetta sostanziosa del proprio mercato interno nel caso Washington proseguisse nella sua politica di appoggio a Taiwan. E' evidente che Pechino non gradisca la massiva presenza americana nel Pacifico, un quadrante geopolitico che ormai considera di sua pertinenza.
E' peraltro difficile che la Cina vada fino in fondo. Consapevole di possedere enormi quote del debito pubblico americano, il governo cinese non può ignorare quanto l'economia nazionale sia ancora vulnerabile ad eventuali contromisure statunitensi. Pechino rimane infatti ancora troppo dipendente dalle esportazioni per potersi permettere di perdere l'accesso ad ampi settori del mercato americano ed è pertanto improbabile che le prossime mosse del Dragone vadano al di là di simboliche manifestazioni di irritazione nei confronti dell'atteggiamento di Washington. Solo quando avrà diversificato maggiormente le direttrici del suo sviluppo economico la Cina avrà la forza per imbarcarsi in una guerra commerciale anti-americana.
Paradossalmente, paesi che possiedono meno risorse economiche, politiche e militari rispetto alla Cina, dispongono attualmente di strumenti più efficaci per colpire l'economia americana. Questo vale per la Russia, il Brasile e l'India, meno dipendenti dal mercato interno americano. In questo senso, sottolinea Stratfor, l'atteggiamento cinese potrebbe avere degli effetti indiretti, incoraggiando alla "ribellione" nei confronti dell'egemonia Usa gli altri attori emergenti del sistema internazionale.
(A cura di Fabio Lucchini)