Bitterlemons.org, 22 marzo 2010,L'annuncio del governo israeliano dell'intenzione di costruire 1600 nuove unità abitative nella colonia Ramat Shlomo di Gerusalemme Est non è passato inosservato. La dichiarazione del ministro degli Interni Eli Yishai, proprio durante la visita del vice-presidente americano Joe Biden, ha avuto infatti l'effetto di uno schiaffo in pieno volto alle velleità di Washington di fermare la politica degli insediamenti. L'amministrazione Obama si è risentita, ma, a differenza di quanto suggeriscono i media di tutto il mondo, non sta succedendo nulla di sconvolgente nelle relazioni tra Washington e Tel Aviv. A sostenerlo è
Diana Buttu (già consulente legale del team negoziale palestinese) nel suo contributo alla newsletter settimanale Bitterlemons.org, che da anni raccoglie le opinioni dei maggiori intellettuali israeliani e palestinesi sulle questioni più scottanti in Medio Oriente.
Non è certo la prima volta che i governi israeliani punzecchiano l'alleato storico con mosse non concordate e sgradite, ma le conseguenze non sono mai state eclatanti. Gli Stati Uniti hanno condannato prontamente l'annuncio del 10 marzo scorso, soprattutto per non indebolire la posizione dei paesi arabi “moderati” che stanno cercando di favorire negoziati indiretti tra l'Autorità Nazionale Palestinese (Anp) e Israele. Tuttavia, si tratta di una questione di timing e non di sostanza. Come ha riconosciuto lo stesso premier Benjamin Netanyahu, considerazioni di delicatezza diplomatica nei confronti di Biden avrebbero dovuto indurre il suo ministro ad attendere un momento più opportuno per dare l'annuncio. Per poi puntualizzare: “Per noi israeliani costruire a Gerusalemme Est è la stessa cosa che farlo a Tel Aviv e io, come ogni altro premier negli ultimi 42 anni, continuerò ad autorizzare la colonizzazione di quella parte della città.”
E così, è pronosticabile che Obama finirà con il comportarsi come chi lo ha preceduto nello Studio Ovale da 42 anni a questa parte: abbozzando davanti alla determinazione di Israele e alle sue violazioni del diritto internazionale, come stabilito da diverse risoluzioni dell'Onu. Troppo forte il legame tra i due paesi perché Washington faccia seguire alle parole i fatti. Questa la convinzione della Buttu, che sparge pessimismo a piene mani sul processo di pace: “Netanyahu riuscirà a rassicurare e ad ammansire gli americani promettendo un dilazione di un paio di anni dell'espansione della colonia, come fece già ai tempi di Bill Clinton in merito all'ampliamento dell'insediamento di Har Homa....da parte sua, l'Anp si lasciò convincere da Clinton a riprendere i negoziati, immaginando erroneamente che con essi si potesse arrestare magicamente il processo di colonizzazione. E' probabile che la storia si ripeta a causa della mancanza di una visione strategica d'insieme da parte dell'amministrazione Usa, che pare destinata a subire la politica del fatto compiuto da parte di Israele.
Il pessimismo e il criticismo nei confronti degli Usa sono gli unici elementi di contatto tra il pensiero della giurista palestinese e quello di
Amnon Lord. Il punto di vista di Lord sull'evoluzione del conflitto israelo-palestinese è veramente interessante: il percorso di questo giornalista israeliano evidenzia come la promessa da decenni tradita di una pace duratura in Medio Oriente sia suscettibile di cambiare radicalmente le convinzioni personali di molti. Dopo aver iniziato la sua carriera nelle file dell'Ong di sinistra Peace Now, Lord ha subito una vera e propria conversione politico-culturale in seguito agli accordi di Oslo del 1993: oggi è redattore capo di Makor Rishon, quotidiano espressione dei valori della destra religiosa e vicino alle posizioni di Benjamin Netanyahu.
La nettezza del suo pensiero emerge quando si tratta di commentare per Bitterlemons le recenti tensioni tra i governi di Tel Aviv e Washington. Lord non esita a schierarsi: “L'America di Obama sta aprendo alle potenze emergenti del Terzo Mondo a discapito delle vecchie alleanze. Egli seguita ad atteggiarsi a amico di Israele solo per una questione di equilibri interni, legati al voto degli ebrei americani e al loro supporto al Partito Democratico…L'amministrazione Obama appare quindi sostanzialmente ostile nei confronti di Israele e il suo primo anno di mandato si è rivelato infruttuoso sul fronte mediorientale a causa della svolta filo-palestinese del presidente del cambiamento. Il tutto a svantaggio di ogni prospettiva di pacificazione.” Come ai tempi dell'ondivago Jimmy Carter, l'atteggiamento americano rischierebbe di far degenerare la situazione. “Entro la fine dell'estate Obama addosserà a Israele la responsabilità del fallimento dell'ipotesi di negoziati indiretti con l'Anp. Poi, imporrà un suo piano di pace, prendere o lasciare, che le parti (in particolare Israele) saranno costrette a rifiutare”, prosegue Lord.
Il giudizio negativo sul presidente Usa viene appesantito dagli sviluppi relativi al dossier nucleare iraniano, rispetto al quale Israele avverte sempre più la necessità che la comunità internazionale prenda decisioni concrete. Il redattore di Makor Rishon non si preoccupa di esagerare, domandandosi enfaticamente se Obama non stia rischiando di creare un'atmosfera da pogrom attorno allo Stato ebraico. Il voltafaccia ideologico di Obama starebbe insomma precipitando il mondo in un clima riecheggiante i momenti più inquietanti della Guerra Fredda.
La speranza a questo punto è che palestinesi e israeliani abbiano il coraggio di smarcarsi da un mediatore tanto inaffidabile e di prendere spunto da Anwar Sadat e Menahem Begin, che nel 1978 trovarono una soluzione diplomatica all'annoso dissidio israelo-egiziano ed evitarono un nuovo conflitto, nonostante l'irresponsabilità del presidente americano di allora (sempre Carter). Netanyahu e Mahmoud Abbas sapranno fare altrettanto? L'alternativa praticabile per Israele è l'unilateralismo e la difesa di confini auto-imposti dall'attacco di Hamas, che nel frattempo si sta rafforzando sempre più. (F.L.)