Brookings Institution, Giugno 2010,
Domenico Lombardi, Nonresident Senior Fellow della Brookings Institution, prende le mosse dall'euforia di Pittsburgh, allorché i leader mondiali si lasciarono andare a una promessa impegnativa; trasformare il G-20 "nel principale forum per la cooperazione economica internazionale". Una promessa che rischia già di diventare lettera morta, travolta dalle conseguenze della crisi in Europa. Come ha confermato il recente vertice di Busan (Corea del Sud), due sono le visioni contrastanti che emergono nel gruppo del G-20.
La prima prospettiva, caldeggiata dagli Stati Uniti, considera la politica fiscale come un fondamentale vettore per la crescita in una situazione caratterizzata dall'incertezza della domanda privata. La seconda, preferita dagli europei, paventa che una crescita veicolata dalla politica fiscale possa rivelarsi un fattore destabilizzante, determinando reazioni incontrollate del mercato che potrebbero compromettere la sostenibilità del debito.
Nel frattempo, si diffondono i timori che un riacutizzarsi della crisi possa avere effetti devastanti su un'economia globale ancora troppo fragile per resistere a nuovi scossoni. Paure che negli Usa vengono compensate dalla ripresa occupazionale e dall'annuncio di misure compensatorie mirate all'espansione dell'export negli anni a venire. In Europa la situazione è più complicata. Per molti è stato amaro scoprire che l'incompleto, per quanto complesso, quadro istituzionale dell'Unione Europea, la più grande economia al mondo, non è assolutamente attrezzato per gestire la prima seria crisi economica dal secondo dopoguerra in poi.
Il già citato summit di Busan, dove poche settimane fa si sono incontrati i ministri della finanze del G-20, non ha fornito risposte soddisfacenti all'incertezza generale. Inevase soprattutto le preoccupazioni degli americani, che necessiterebbero di un'Europa quantomeno stabile (se non in crescita) per consolidare la propria ripresa. Nel medio termine, infatti, un euro debole causerà una riduzione delle esportazioni Usa verso il Vecchio Continente e si tradurrà in un ulteriore danno per il manifatturiero statunitense, esposto sui mercati internazionale alla accresciuta competitività dei prodotti europei. E non solo: il clima a Washington diverrebbe incandescente se l'apprezzamento dello yuan nei confronti dell'euro offrisse un pretesto a Pechino per ritardare ulteriormente l'apprezzamento della propria valuta nei confronti del dollaro; per non parlare del rischio che un sempre più indebolito sistema finanziario europeo finisca per contagiare il tuttora malcerto settore bancario d'oltre Oceano.
Perché il G-20 non ha ancora riconosciuto le implicazioni sistemiche di un eventuale aggravamento della crisi in Europa? In primo luogo, perché gli stessi europei hanno tardato a comprendere le reali debolezze del proprio sistema finanziario, dopo averne lodato la resilienza nei primi mesi della crisi globale. In secondo luogo, perché per troppo tempo è stata esibita la certezza assoluta che una crisi in paesi deboli come Grecia, Portogallo e Spagna non si sarebbe propagata al resto del continente. Una convinzione, argomenta Lombardi, a dir poco superficiale se si considera non solo l'alto livello di integrazione dell'Ue, ma anche il fatto che molti paesi europei condividono la vulnerabilità di appartenere a un'unione monetaria la cui incompletezza istituzionale espone i membri a gravi attacchi speculativi.
Il G-20 non è un forum decisionale ma un corpo consultivo, seppur di altissimo livello. E' auspicabile che i leader extra-europei presenti a Toronto facciano pressione sui colleghi dell'Ue per indurli ad affrontare con onestà e a risolvere unitariamente i propri problemi. Una recente iniziativa del Consiglio Europeo, il meccanismo europeo di stabilizzazione finanziaria (uno strumento che offre assistenza finanziaria a uno Stato membro in difficoltà o alle prese con le gravi conseguenze di una difficoltà dovuta a circostanze eccezionali) rappresenta un passaggio positivo, ma non risolutivo a fronte della precarietà del sistema continentale.
Ogni crisi di fiducia nella capacità di gestire il proprio debito riflette una mancanza di fiducia nella propria capacità di crescere. Questa è la trappola in cui sono caduti gli europei. Continuando a preoccuparsi soltanto della stabilizzazione fiscale, la Ue rischia di confermare indirettamente le paure dei mercati finanziari sul suo conto. Sarebbe invece il caso di mettere in cantiere e implementare un credibile piano per alimentare e sostenere la crescita, rimuovendo barriere e ostacoli regolatori troppo vincolanti. Aldilà della dovuta moral suasion, conclude Lombardi, i membri non europei del G-20 possono fare poco; gli europei hanno in mano il proprio destino. Con l'avvertenza che nessun annuncio sarà mai credibile, nessuna rete finanziaria sarà abbastanza solida e nessun pacchetto finanziario sarà consistente a sufficienza se gli europei non metteranno da parte gli interessi nazionali per unire finalmente i propri sforzi nelle acque perigliose del mercato globale.
Domenico Lombardi, Nonresident Senior Fellow della Brookings Institution, è un esperto di summit G-20 e G-8, di relazioni monetarie e di valute internazionali. I suoi progetti di ricerca più recenti vertono sulle crisi finanziarie, in particolare le attuali difficoltà europee e la riforma del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale.
-Disastro evitato, ma la strada è ancora lunga