L'evoluzione del movimento nazionale palestinese è stata radicalmente diversa (rispetto all'evoluzione del movimento sionista, ndt). In effetti, non vi è stata alcuna evoluzione nei confronti di Israele e del Sionismo. Gli avvenimenti degli anni 1937, 1947, 1978 - anno in cui Arafat rifiutò gli accordi di Camp David raggiunti da Begin e Sadat, che prevedevano l'auto-governo dei palestinesi a Gaza e in Cisgiordania - e 2000 si sono rivelati inconcludenti e non hanno consentito alcun cambiamento o progresso verso un obiettivo finale. Haj Ami al-Husseini (Gran Muftì di Gerusalemme durante il Mandato britannico sulla Palestina, ndt) e Arafat lottarono con la medesima determinazione per una particolare forma di one-state solution (al-Husseini tentò di abbattere lo Stato ebraico e di rimpiazzarlo con uno Stato unitario arabo-islamico mediante azioni repentine e, nei suoi intenti, decisive, mentre Arafat oscillò tra accelerazioni violente e un approccio più indiretto; ma l'obbiettivo era lo stesso per entrambi).
Il movimento nazionale palestinese vide la luce con il chiaro intento di edificare uno Stato arabo islamico in Palestina - la sua one-state solution - e ha continuato a difendere quell'impostazione sino ai giorni nostri. Inoltre, come corollario, al-Husseini, il leader nazionale palestinese negli anni trenta e quaranta, l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp), guida del movimento palestinese dagli anni sessanta alla morte di Arafat nel novembre 2004, e Hamas, oggi, hanno cercato e cercano di ridurre il numero di abitanti ebrei nell'area, in altre parole, una sorta di pulizia etnica in Palestina. Al-Husseini e l'Olp hanno esplicitamente dichiarato la loro intenzione di limitare la cittadinanza palestinese a quegli ebrei che avessero vissuto stabilmente in Palestina prima del 1917 (o, in un'altra versione, limitarla a quei 50.000 ebrei e ai loro discendenti). Un obiettivo espresso chiaramente nella Carta Nazionale Palestinese e in altri documenti. Pubblicamente, Hamas è stata più cauta a riguardo, ma le sue intenzioni sono cionondimeno chiare.
La visione palestinese non è mai stata, come descritta dai vari portavoce palestinesi negli anni sessanta, settanta e ottanta ai giornalisti occidentali, quella di una "Palestina laica e democratica" (che suona certamente meglio de "la distruzione di Israele", un retro pensiero sempre presente). Invece, una "Palestina laica e democratica" non è mai stata al centro dei piani né di Fatah né dei cosiddetti gruppi moderati che hanno dominato l'Olp dagli anni sessanta alle elezioni del 2006, che hanno portato al potere Hamas.
Rashid Khalidi ha scritto che "nel 1969 l'Olp modificò la sua postura e da allora ha sempre auspicato l'instaurazione di uno Stato laico e democratico in Palestina per musulmani, cristiani ed ebrei, che rimpiazzasse Israele." E Ali Abunumah ha scritto, nel suo recente libro, Una nazione (One Country): "L'Olp adottò infine (nei tardi anni sessanta e all'inizio dei settanta), come sua posizione ufficiale, l'obiettivo di uno Stato laico, democratico in tutta la Palestina."
Questa è una fesseria. Il Consiglio Nazionale Palestinese non ha mai modificato la Carta Nazionale Palestinese in modo da rendere chiaro che il fine ultimo dell'Olp fosse il suddetto Stato laico e democratico. Un simile concetto non è mai apparso nella Carta, né in alcuna risoluzione dei comitati centrali dell'Olp, del Consiglio stesso e del Comitato Esecutivo di Fatah. Si tratta di un orpello inventato per imbonire gli occidentali, del tutto estraneo alla principale corrente ideologica del mondo palestinese. La leadership palestinese non ha mai sostenuto la nascita di una Palestina laica e democratica.
Il Consiglio Nazionale Palestinese modificò la Carta nel 1968, non nel 1969, ma la ratio dell'emendamento fu di limitare la cittadinanza non-araba nella futura Palestina liberata agli "ebrei che avessero risieduto stabilmente in Palestina prima dell'inizio dell'invasione sionista" - si parla del 1917.
E' vero, la Carta così modificata garantiva anche, nel futuro Stato di Palestina, "libertà di culto e di visita" ai luoghi sacri per tutti, "senza discriminazione di razza, colore della pelle, lingua o religione." Senza dubbio, questa era musica per le orecchie liberal degli occidentali, ma non aveva alcuna connessione con la realtà e con la storia delle società arabo-islamiche contemporanee. Fu, come ogni ipocrisia, "un tributo che il vizio paga alla virtù." Quale società arabo-musulmana nell'era moderna ha trattato con tolleranza ed equità cristiani, ebrei, buddisti, hindu e pagani? Per quale motivo dovremmo credere che i musulmani arabo-palestinesi si comporteranno in modo diverso (vedi la partenza precipitosa dalle zone palestinesi della gran parte degli arabi cristiani, vedi la recente uccisione del proprietario arabo-cristiano di una libreria di Gaza, vedi l'incendio doloso della libreria della Young Men's Christian Association, sempre nella Striscia)? I liberal occidentali amano vedere o pretendono di vedere gli arabi palestinesi, in realtà tutti gli arabi, come degli scandinavi e rifiutano di riconoscere che i popoli, per varie ragioni storiche, culturali e sociali, sono differenti e si comportano in modo diverso tra loro quando si trovano ad affrontare circostanze simili o identiche. (Perché, per esempio, i neri africani, che per secoli hanno subito vessazioni gravissime da parte sia degli occidentali che degli arabi, non si sono mai sollevati e dedicati al terrorismo internazionale contro obiettivi occidentali e arabi?)
E allora, dove ha avuto origine lo slogan di una "Palestina laica e democratica"? L'enunciazione venne proposta per la prima volta nel 1969 dal piccolo gruppo scissionista marxista del Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina. Secondo Khalidi, "l'idea venne in seguito sostenuta dai leader del movimento dominante di Fatah...il modello dello Stato laico e democratico è dunque diventato la posizione ufficiale dell'Olp." Come ho già detto, è una pura invenzione. Il Consiglio Nazionale Palestinese, l'Olp e Fatah respinsero quella proposta, che non venne ripresa nelle dichiarazioni di alcun leader o organismo palestinese - sebbene i media occidentali insistettero per tutti gli anni settanta ad attribuir loro una posizione del genere. Come risultato, comunque, il mito ha preso piede e si è diffusa la convinzione che quello fosse il fine dell'Olp dalla fine degli anni sessanta agli anni ottanta.
E oggi, ancora, e per le stesse ragioni, "una Palestina laica e democratica" (una frase che mantiene il suo sapore liberal, positivo e multiculturale) viene sbandierata dai sostenitori di uno Stato unico palestinese. Pochi in realtà credono o desiderano questo risultato, ma data la realtà della politica e degli atteggiamenti palestinesi, l'altisonante frase serve, obiettivamente, per camuffare il vero fine: la creazione di uno Stato arabo-musulmano in grado di rimpiazzare Israele. E, come nel passato, l'obiettivo di "una Palestina laica e democratica" non fa parte della piattaforma politica di alcuno dei maggiori partiti palestinesi o di alcuna loro istituzione.
Addirittura, l'enunciato è più privo di significato oggi di quanto non lo fosse tre decadi or sono. E lo è soprattutto perché gli arabi palestinesi, come le altre comunità arabo-islamiche nel mondo, sono profondamente religiosi e non hanno rispetto per i valori democratici, senza aver inoltre tradizioni di governante democratica. E' emblematico il fatto che il primo leader del movimento nazionale palestinese - il già citato Haj Amin al-Husseini - fosse un religioso autocratico che governava con la forza delle armi; e non era un caso che egli impiegasse retorica e simboli religiosi per mobilitare la sua gente contro gli "invasori" infedeli. Era il linguaggio in grado di raggiungere il cuore delle masse palestinesi. Brandire l'arma ideologica di "una Palestina laica e democratica" durante gli anni di al-Husseini e di Arafat avrebbe semplicemente alienato loro il consenso delle masse - un fatto che spiega perché i massimi organismi politici palestinesi si siano sempre guardati bene dall'adottare ufficialmente lo slogan.
Sotto questo profilo, le cose sono andate peggiorando a partire dagli anni sessanta in poi. A chi sia sfuggita l'importanza della vittoria di Hamas nelle elezioni del 2006 e della violenta presa di Gaza del 2007, un semplice sguardo alla situazione della West Bank e di Gaza oggi (e dei villaggi e delle città abitate da minoranze arabo-israeliane) rivela un paesaggio dominato dalle moschee e minareti di nuova costruzione, dalle invocazioni dei muezzin che riempiono l'aria, dalle donne coperte dall'hijab che calcano le strade. Solo i folli e i bambini sono convinti che nel 2006-2007 Hamas abbia sbaragliato Fatah grazie alla sua immagine incorrotta e alle sue azioni caritatevoli a vantaggio dei poveri. Sono stati dei fattori importanti, non lo nego, ma le principali ragioni della vittoria sono religiose e politiche: la crescente religiosità delle masse palestinesi e il "riconoscimento" del fatto che Hamas impersonifichi la "verità" e che, con l'aiuto di Allah, possa condurre il popolo palestinese alla vittoria finale sugli infedeli, dato che il movimento islamista ha già ottenuto, tramite la lotta armata, il ritiro degli infedeli dalla Striscia di Gaza nel 2005. (Traduzione a cura di Fabio Lucchini)
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Tratto da Uno Stato, due Stati: Come risolvere la questione israelo/palestinese?, Benny Morris, Yale University Press 2010