Barack Obama ha riportato Benjamin Netanyahu al tavolo con i palestinesi. Ma sarà vera gloria? L'obiettivo dei negoziati, che cominciano il 2 settembre, è giungere a un accordo per la nascita di uno Stato palestinese entro un anno. Ma la prima vera scadenza è quella del 26 settembre, quando terminerà la moratoria del governo israeliano sui nuovi insediamenti in Cisgiordania. Il presidente palestinese, Mahmoud Abbas, insiste sul fatto che la moratoria sarà decisiva per il futuro della trattativa, trovando un sostegno, seppur parziale, da parte di Obama, contrario sì alle precondizioni palestinesi ma anche ai nuovi insediamenti israeliani. In effetti, la decisione, presa in primavera dal governo israeliano, di costruire nuove abitazioni a Gerusalemme Est ha irrigidito la postura dell'amministrazione Usa verso Israele, nonostante il più recente disgelo. La situazione attuale non è comunque confortevole per Netanyahu, in quanto diversi esponenti del suo partito, il Likud, e i nazionalisti di Yisrael Beiteinu, guidati dal ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman, guardano con sospetto al nuovo, imminente, round negoziale. Non sembra un caso che il sindacato dei diplomatici abbia ordinato ai dipendenti dell'ambasciata di Washington di non collaborare il 2 settembre alla visita americana del premier per imbastire i negoziati. Che Lieberman ne sappia qualcosa? Una situazione che fotografa appieno lo scetticismo che si respira in Israele alla vigilia della ripresa dei colloqui diretti con la controparte palestinese. Un'atmosfera descritta da Marc Tracy, collaboratore del quotidiano online di politica e cultura israeliana, Tablet magazine. Tracy denuncia il cinismo strisciante che accompagna ogni ipotesi di ripresa del processo di pace. Innanzitutto, è significativo che il segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, abbia annunciato la sessione negoziale prossima ventura nel pomeriggio del penultimo venerdì d'agosto, in pieno clima balneare. Ancora, risulta davvero difficile immaginare che i colloqui diretti possano condurre a un accordo che soddisfi le richieste israeliane (nessun diritto al ritorno per i profughi palestinesi del 1948 e i loro discendenti, nessuna concessione significativa su Gerusalemme Est e la demilitarizzazione di un eventuale Stato palestinese), senza determinare un forte calo di popolarità di Abbas e Fatah, a tutto vantaggio di Hamas. Se Ethan Bronner, capo dell'ufficio di Gerusalemme del New York Times, parla di "incapacità e scarsa volontà" delle parti in causa, George Will, editorialista del Washington Post si domanda quale interesse possa avere nei negoziati un terzo attore, che qualcuno vorrebbe rimuovere dalla contesa o ignorare ma che esiste e fa sentire la sua presenza anche quando tace. Stiamo parlando di Hamas ed è evidente che l'organizzazione islamista, che continua ad auspicare la distruzione dello Stato ebraico, non abbia alcunché di positivo da aspettarsi dai negoziati tra Abbas e Netanyahu. Anzi, è presumibile che abbia interesse a sabotarli.
Il pessimismo sulle prospettive negoziali appena riapertesi, non impedisce a Liel Leibovitz, uno dei curatori delle edizioni online di Tablet Magazine, di proporre un'interessante analisi su quelli che potrebbero essere i possibili sbocchi del tentativo di mediazione alle porte. Egli nota come, sia alla sinistra che alla destra dello spettro politico israeliano, l'ipotesi di un singolo Stato bi-nazionale israelo-palestinese mantenga un buon numero di estimatori. Un processo che egli valuta con attenzione, ma che giudica un tradimento dello spirito del Giudaismo e del Sionismo.
Sorprendentemente, in un recente intervento pubblico, Uri Elitzur, ex capo del movimento dei coloni israeliani, ex consigliere di Netanyahu e preminente membro della destra religiosa, si è dichiarato a favore della soluzione bi-nazionale. L'idea di dar vita a una nazione eterogenea e democratica, estesa dal Mediterraneo al Giordano, dove israeliani e palestinesi, ebrei, musulmani e cristiani vivano insieme, è stata per lungo tempo patrimonio esclusivo della sinistra israeliana. Motivo per il quale molti in Israele sono rimasti stupefatti nel leggere le seguenti righe, scritte da Elitzur su Nekuda, la rivista ufficiale del movimento dei coloni: "Se Israele vuole emendarsi dai suoi peccati e risolvere i suoi problemi, non ha altra scelta che annettere la West Bank e trasformare i suoi 2.5 milioni di abitanti in cittadini israeliani." E non si tratta dell'unico intellettuale della destra israeliana a pensarla in questo modo. Moshe Arens, il padrino politico di Netanyahu, Reuven Rivlin, l'attuale speaker della Knesset in quota Likud e Emily Amrousi, l'ex portavoce del movimento dei coloni, hanno espresso opinioni assimilabili. I fautori del bi-nazionalismo legati agli ambienti conservatori della politica israeliana si appellano al realismo e sembrano disposti a sacrificare la compattezza interna e il carattere prettamente ebraico dello Stato alla necessità di renderne sicuri confini.
La convinzione di fondo (o forse la speranza) che anima l'ipotesi bi-nazionale è che, se si innescasse un processo di identificazione nazionale in grado di mettere in secondo piano le appartenenze religiose ed etniche, ebrei, cristiani e musulmani cesserebbero di auto-rappresentarsi come tali e inizierebbero a figurarsi semplicemente come israeliani. Come tali, essi potrebbero superare gli odi del passato e imparare a convivere, spartendosi potere e risorse. E qui la virata ideologica di una parte della destra israeliana si salda con le convinzioni maturate da tempo dagli ambienti progressisti nazionali. Avrum Burg, già presidente dell'Agenzia Ebraica (un'organizzazione fondata nel 1923 e attiva a livello globale a sostegno della natura ebraica dello Stato di Israele), esponente del Labor, nonché speaker della Knesset dal 1999 al 2003, difende l'opzione di uno Stato bi-nazionale. Egli invita gli scettici connazionali ad ammirare il precedente europeo, mirabile esempio di tolleranza e di collaborazione tra popoli che si erano ferocemente combattuti nei due più sanguinosi ed estesi conflitti che la Storia ricordi. E che dire dell'aspetto economico? Nel rinnovato Israele multiculturale si riverserebbero ingenti finanziamenti che, oggi bloccati da considerazioni politiche, permetterebbero alla già solida base produttiva nazionale di svilupparsi ulteriormente e di cogliere appieno le opportunità del mercato globale.
Bei discorsi, nota Leibovitz. Persino convincenti se raccontati a qualcuno che non sia ebreo. Il Giudaismo, da Abramo in poi, ha sempre promosso la centralità di uno Stato ebraico situato nella Terra di Canaan, un antico termine geografico di matrice biblica che designa l'area che comprende, in varie proporzioni, i territori degli attuali Stati di Israele, Libano, Giordania e Siria. Uno Stato che nella tradizione biblica avrebbe dovuto servire da esempio alle altre nazioni sulla via della perfezione. La forza della rinascita sionista del diciottesimo e diciannovesimo starebbe nell'aver ridato smalto e attualità all'anelito biblico verso la Terra Promessa. Ed è per questa ragione che il Sionismo è stato in grado di convincere e attrarre nelle sue fila, oltre a centinaia di migliaia di coloni, numerosi intellettuali provenienti dalle correnti di pensiero più disparate, dal Marxismo al Messianismo. Tutti convinti, al fondo, che lo Stato ebraico non fosse solo un luogo dove instaurare un regime giusto e democratico, ma un vero e proprio strumento di salvezza.
E' chiaro che i fautori del bi-nazionalismo non possano affatto condividere una simile impostazione. Burg ritiene che la ragione del successo del Sionismo stia nella sua natura liberale e progressista, che ha consentito la rinascita e la crescita prodigiosa di Israele in un ambiente regionale ostile. Ancorare il Sionismo alla "purezza etnica" a tutti i costi rischia di compromettere i valori che sono la ragion d'essere dello Stato ebraico. Leibovitz replica che Israele, senza la sua collocazione spaziale in Terra Santa e senza la sua connotazione culturale e religiosa ebraica, perderebbe la sua stessa identità e lascerebbe i sei milioni di ebrei che lo abitano senza i riferimenti etici che hanno costituito la spina dorsale del Paese dal 1948 in poi.
Come si evince dai pochi spunti di cui sopra, il dibattito sull'ebraicità di Israele travalica le dispute religiose e dottrinarie e determina contrapposizioni radicali nella stessa intellighenzia israeliana, tagliando trasversalmente gli schieramenti politici e toccando sensibilità personali e identitarie. I protagonisti del round negoziale che sta per iniziare a Washington, se dovessero superare gli scetticismi e le resistenze che circondano l'avvio dei loro colloqui, prima o dopo troveranno sul loro lastricato percorso il dilemma "uno Stato/due Stati" e le implicazioni di carattere non solo politico, ma anche storico e culturale che da sempre lo accompagnano. (A cura di Fabio Lucchini)