La nuova diplomazia del presidente Obama in Medio Oriente, che enfatizza il dialogo e il negoziato, richiede che egli e il resto della comunità internazionale non guardino solo a Israele e ai palestinesi, ma anche al mondo arabo nel suo insieme. Come il presidente americano ha detto nel suo discorso di accettazione del Premio Nobel, "La convinzione che la pace sia desiderabile è raramente sufficiente per ottenerla. La pace richiede responsabilità." In questo momento, il mondo deve chiedersi non solo perché gli arabi non si stiano assumendo le loro responsabilità, ma anche perché (da quello che le loro azioni suggeriscono) essi stiano facendo il doppio gioco - auspicando a parole uno Stato palestinese, ma operando concretamente per ostacolarne la nascita.
Dopo tutto, di questi tempi, lo scorso anno gli Stati Uniti chiedevano ai governi arabi di assisterli nel rilancio del processo di pace israelo-palestinese, invitandoli a piccoli gesti di "normalizzazione" verso Israele. Niente di tutto ciò si è verificato, sollevando ancora la questione: Gli Stati arabi vogliono realmente impegnarsi per la pace e la riconciliazione con Israele? E non li preoccupa forse l'idea che uno Stato palestinese, prospero, laico, democratico, e sviluppato posso loro nuocere? L'Arabia Saudita, in particolare, potrebbe concepire un modello statuale del genere come una minaccia alla sua fondamentalista interpretazione wahabita dell'Islam e considerare troppo "liberal" e "decadente" una società palestinese dove le donne avessero piena dignità. Specialmente, in un'epoca dominata dai media, dalle televisioni satellitari e da internet, un simile esempio di regime arabo moderato apparirebbe troppo prossimo al giardino di casa di Ryadh.
E così, ai rifugiati palestinesi tocca languire nei campi di accoglienza oppure, nella migliore delle ipotesi, vivere come cittadini di seconda classe in Libano, Giordania, Siria e altrove. L'odio per gli ebrei e per Israele viene generalmente passato di generazione in generazione come un dato acquisito. Nel frattempo, il sostegno economico da parte degli altri Stati arabi alla malferma Autorità Palestinese nella West Bank è pressoché virtuale. Pare anche che i sauditi preferiscano comprare terreni nell'Africa sub-sahariana e metterli a coltura piuttosto che acquistare frutta e verdura raccolta dai "fratelli" palestinesi nei Territori. Come ha scritto recentemente Thomas Friedman, "per quegli arabi che sono rimasti affascinati dall'idea dei palestinesi come vittime permanenti, per sempre impegnati nella eroica lotta armata per riconquistare la dignità palestinese e araba, il metodico tentativo del premier palestinese Fayyad di costruire uno Stato non è autentico. Alcuni arabi - vergognosamente - speculano sulla situazione e solo gli Emirati Arabi Uniti hanno fornito un reale sostegno finanziario."
Tutto ciò appare davvero scoraggiante alla luce di recenti studi che indicano come vi sia un sostegno crescente tra israeliani e palestinesi alla soluzione dei due Stati basata sui cosiddetti "Parametri di Clinton" proposti nel 2000. I termini di questa risoluzione non sono poi tanto dissimili dall'Iniziativa di Pace Araba del 2002, se si eccettua l'insistenza araba, saudita in primo luogo, sul pieno ritiro israeliano alla linea di confine del 1967 (prima della Guerra dei Sei Giorni, ndt) come condizione necessaria per l'inizio dei negoziati. I sauditi hanno reiterato questa ridicola posizione ancora lo scorso anno. Si tratta ovviamente di una condizione inaccettabile per qualsiasi governo israeliano. Il ritiro dalla West Bank può avvenire solo nel quadro di un processo negoziale e non come precondizione al negoziato. Non è possibile mettere il carro davanti ai buoi.
Rimane comunque il bisogno di coinvolgere gli Stati arabi nel processo di pace, così come resta la necessità che essi facciano la loro parte per rendere il Medio Oriente un luogo sempre più stabile. Dopo aver visitato la Casa Bianca ai primi di luglio, il re saudita Abdullah ha ribadito il suo supporto a colloqui di pace allargati tra israeliani, palestinesi, siriani e libanesi. Inoltre, la stampa riporta che già nell'estate in corso sauditi e israeliani abbiano cominciato a collaborare strettamente in merito al dossier iraniano (pare che Ryadh sia disponibile a consentire agli aerei di Gerusalemme di sorvolare il suolo saudita in caso di attacco preventivo a Teheran). Vi sono segnali che gli Stati arabi stiano realizzando che un Iran dotato dell'arma atomica possa rappresentare una minaccia per l'intera regione e non solo per Israele. Messa in un altro modo, una teocrazia fondamentalista sciita nuclearizzata è ovviamente una minaccia più seria di Israele, che presumibilmente detiene armi nucleari da almeno 50 anni e che sicuramente non le ha mai utilizzate - nemmeno in occasione di due conflitti su ampia scala (nel 1967 e 1973, ndt). Come ha ammesso lo scorso mese l'ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti a Washington, "noi non possiamo vivere a fianco di un Iran nucleare; sono disponibile ad accettare quello che potrà accadere, anche a rischio della sicurezza del mio Paese (dopo il bombardamento degli impianti nucleari iraniani)."
Presi nel loro insieme, io ritengo che questi siano segnali incoraggianti: il mondo arabo e Israele potrebbero essere capaci di mettere da parte le loro differenze rispetto alla Palestina per concentrarsi sul mutuo interesse a bloccare l'Iran nel suo tentativo di sviluppare armi nucleari. Come sempre accade in casi del genere, non possiamo sapere se i sauditi stiano giocando un particolare ruolo in pubblico e in privato tentino invece di minare la stabilità dell'ordine regionale.
Per questa ragione, una conferenza di pace regionale sotto gli auspici americani e che coinvolga Israele, Arabia Saudita, Egitto e l'Autorità Palestinese guidata da Mahmoud Abbas, potrebbe rivelarsi un utile esercizio. Non ci sono surrogati alla diplomazia e al negoziato faccia a faccia. In ultima istanza, il mondo potrebbe comprendere la reale posizione degli arabi sulle vicende palestinese e iraniana e obbligare quei governi a schierarsi pubblicamente. Una two-states solution al conflitto israelo-palestinese e una regione libera dall'incubo di un Iran nucleare paiono obbiettivi che dovrebbero essere desiderabili in ogni capitale mediorientale. E' tempo che la professata volontà del mondo arabo di perseguire la pace si incontri con un'azione responsabile e non più con gli atteggiamenti equivoci del passato. (Traduzione a cura di Fabio Lucchini)