Tra gli imbarazzanti, ma in fondo non particolarmente significativi, files sinora pubblicati da Wikileaks, di particolare interesse il ritratto di una Cina che, secondo i documenti divulgati dall'organizzazione di Julian Assange, sarebbe disposta ad abbandonare la Corea del Nord e ad accettare una Corea riunificata sotto il controllo di Seul. Lo avrebbe sostenuto, nel mese di febbraio, un alto esponente sudcoreano durante una cena con un diplomatico americano. Un elemento senz'altro da considerare dopo l'incidente della scorsa settimana, quando le forze armate di Pyongyang hanno bombardato l'isola sudcoreana di
. Subito dopo l'incidente, il gruppo aeronavale della VII flotta Usa è partito dalla sua base giapponese per dirigersi nel Mar Giallo per tenere esercitazioni congiunte con Seul. A guidare le manovre la portaerei nucleare George Washington. Un'operazione che ha mandato su tutte le furie la Corea del Nord, ma che si è conclusa senza incidenti dopo quattro giorni.
Mentre la fase più acuta della crisi tra le due Coree sembra attenuarsi, molti osservatori internazionali si interrogano sul possibile cambiamento di rotta di Pechino rispetto allo scomodo alleato nordcoreano. In seguito al bombardamento di Yeonpyeong e durante le esercitazioni navali nel Mar Giallo, la Cina ha mantenuto un profilo basso e ha più volte auspicato una riunione di emergenza dei cosiddetti six-party talks, il gruppo di contatto che include le due Coree, la Cina stessa, Giappone, Russia e Stati Uniti. Richiesta respinta da Seul, Tokio e Washington in attesa di un imminente incontro a tre per valutare un approccio diplomatico congiunto. Lo riferisce Mark McDonald, inviato a Seul dell'International Herald Tribune, che ipotizza che la prudenza cinese di questi giorni preluda a un raffreddamento nei rapporti con Pyongyang, le cui mosse spregiudicate rischiano di interferire con gli interessi di Pechino. La Cina, che vorrebbe imporre la sua egemonia in Asia mediante un'inesorabile avanzata commerciale e diplomatica, in questa fase giudica controproducente ogni occasione di tensione con gli Stati Uniti e i loro alleati asiatici. Che sia la fine della comprensione cinese verso il regime di Kim Jong-Il?
Il crescente isolamento del regime nordcoreano non ne riduce tuttavia la pericolosità, se si considerano anche gli accenti fortemente bellicisti che nel Sud hanno fatto seguito all'incidente degli scorsi giorni. Il rischio che un incidente sfoci in un conflitto permane. Inquietano inoltre le ambizioni nucleari di Pyongyang e i correlati rischi di proliferazione. Lo confermano le rivelazioni del giornale birmano Irrawaddy. Secondo le fonti del magazine, lo scienziato americano Siegfried Hecker ha avuto modo di constatare la presenza di oltre 2000 centrifughe per l'arricchimento dell'uranio in Corea del Nord. Robert Kelley, che in passato ha lavorato per l'Aiea (Agenzia internazionale per l'energia atomica), riporta lo stupore di alcuni consulenti americani davanti al grado di sofisticazione dei suddetti impianti. Kelley, profondo conoscitore della realtà birmana, suggerisce inoltre che la giunta militare che governa da anni il Myanmar abbia un forte interesse a sviluppare un proprio programma nucleare. Considerando la nota cooperazione militare tra Pyongyang e Rangoon, entrambi "discussi" alleati della Cina, il rischio di proliferazione nucleare in Asia non è da sottovalutare, conclude lo scienziato americano che teme anche un coinvolgimento del Pakistan nella diffusione della tecnologia nucleare.
Le affermazioni di Kelley sono contestate da diverse voci autorevoli, una su tutte ProPublica, l'agenzia giornalistica Usa vincitrice del Premio Pulitzer 2010, ma fanno luce sulle conseguenze più inquietanti dell'allargamento della crisi coreana al resto del continente asiatico. Le due principali potenze con interessi nella regione, Stati Uniti e Cina, sono pertanto chiamate a un impegno diretto per garantirne la stabilità e la sicurezza.
Greg Austin, in un contributo per il think tank internazionale EastWest Institute, suggerisce un allargamento del raggio d'azione della Nato al cruciale quadrante Asia-Pacifico. L'Alleanza, argomenta, conta su alcuni membri informali in quell'area, che condividono con i paesi della Nato valori e priorità strategiche; si tratta di Australia, Giappone, Corea del Sud e Nuova Zelanda. Paesi che occupano una macro-area entrata da tempo nelle mire espansive della Cina e che, nel caso di Corea del Sud e Giappone, vivono a stretto contatto col più imprevedibile degli alleati di Pechino: il regime di Pyongyang
La suggestione di Austin invita dunque a riflettere. In un momento in cui la Cina sembra prendere le distanze da Pyongyang mostrando una certa disponibilità a discutere e a mediare sugli affari dello spazio Asia-Pacifico, americani ed europei dovrebbero cogliere l'occasione al balzo per invitare Pechino a un profondo sforzo di collaborazione per affrontare, senza ambiguità e reticenze, i nodi irrisolti che minacciano gli equilibri del gigantesco continente asiatico. Infatti, l'irresponsabile aggressività nordcoreana, la fragilità del Pakistan nucleare e l'assertività dell'Iran sono dossier che da anni restano pericolosamente sospesi, come minacce dormienti pronte a deflagrare. Impedire che questo accada è responsabilità della comunità internazionale, in primo luogo delle potenze che la guidano o che ambiscono a guidarla (A cura di Fabio Lucchini)