Critica Sociale, febbraio 2011,
Con un durissimo discorso alla nazione, Muhammar Gheddafi ha ribadito la sua volontà di resistere e di mantenere il controllo del potere a oltranza. Se Bengasi e la parte orientale della Libia gli stanno sfuggendo, il Colonnello può ancora contare su Tripoli.
Con le sue parossistiche parole, Gheddafi ha voluto chiarire ai libici e agli osservatori internazionali la ferma intenzione di impedire che a Tripoli si ripeta quanto accaduto al Cairo e a Tunisi, ossia il rovesciamento di regimi al potere da decenni. In effetti, la situazione non è paragonabile agli scenari egiziano e tunisino, dove i militari hanno dimostrato la capacità di prendere il controllo. In Libia emergono invece chiari segnali di divisione all'interno dell'esercito, con diverse defezioni nella parte orientale del Paese. Secondo la disamina dell'analista del think tank Stratfor, Reva Bhalla, la possibilità che il regime sopravviva dipende da due fattori: la lealtà dei gruppi tribali e il comportamento dell'esercito. Se il regime non riuscirà a ricompattare i ranghi dell'esercito, il potere reale potrebbe presto cadere nelle mani delle componenti tribali, molte delle quali si sono già ribellate al governo. Considerando l'instabilità di questi fattori, l'eventualità dell'insorgere di una sanguinosa guerra civile è tutt'altro che trascurabile. Nel frattempo, le compagnie petrolifere occidentali lasciano il Paese.
Come riportano gli inviati del New York Times, Julia Werdigier e Rachel Donato, i principali operatori attivi in Libia hanno già annunciato i piani di evacuazione dei propri dipendenti. L'Eni ha comunicato di aver iniziato il rimpatrio del personale non essenziale e dei familiari dei suoi dipendenti nel Paese. La medesima intenzione è stata espressa, tra gli altri, dalla British Petroleum. Considerando che la Libia detiene le più vaste riserve di greggio in Africa e occupa la settima posizione tra i produttori Opec, la scelta non è priva di conseguenze in uno scenario già caratterizzato dall'aumento dei prezzi del petrolio.
La situazione sul terreno è complessa. La quasi totalità della produzione libica di gas e petrolio è terrestre. Una circostanza che riduce i costi ma che aumenta la possibilità che l'instabilità politica condizioni le forniture. Oltretutto, dei quasi due milioni di barili prodotti giornalmente, solo una parte viene estratta dal quadrante occidentale che fa riferimento a Tripoli ed esportata tramite un singolo grande hub nei pressi della capitale. Una porzione altrettanto rilevante viene invece prodotta a est, proprio nell'area che è il cuore della rivolta, ed esportata tramite diversi punti di raccolta. Due regioni divise da centinaia di chilometri di deserto.
L'esito che si prefigura è piuttosto inquietante: due aree del paese ostili l'una all'altra e dotate entrambe di cospicui bacini petroliferi che potrebbero diventare bersaglio degli attacchi delle opposte fazioni. Se gli eventi prendessero effettivamente una simile piega, gli approvvigionamenti energetici non potrebbero che risentirne. Pesanti le conseguenze sul mercato internazionale, in particolar modo per paesi come l'Italia.
Secondo le analisi di Stratfor, il personale straniero evacuato non potrebbe essere in alcun modo rimpiazzato a livello locale, poiché la scarsamente popolata Libia non è in grado di mettere in campo una quantità sufficiente di tecnici e ingegneri per gestire adeguatamente il proprio settore energetico. Già si è registrato un calo nell'output.
Un problema, come anticipato, che tocca in modo particolare l'Italia. Nei lunghi anni dell'isolamento internazionale libico, l'Eni è rimasta attiva in Libia, paese in cui opera dal 1959. Nel 2003, dopo il riavvicinamento diplomatico tra Gheddafi gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, il colosso italiano è stato affiancato da altre compagnie occidentali. L'esplosione popolare e la tragica conflittualità di questi giorni stanno innescando un nuovo esodo dal Paese, difficile dire quanto momentaneo. Nel frattempo, le compagnie hanno fatto sapere che le operazioni in Egitto sono tornate alla normalità dopo le dimissioni di Mubarak. Tuttavia, come ha ricordato minaccioso il Colonnello, Tripoli non è il Cairo. (A cura di Fabio Lucchini)