Scott Stewart, Stratfor, febbraio 2011,
Come notato da George Friedman nella sua analisi geopolitica settimanale "Rivoluzione e mondo islamico", uno degli aspetti dell'attuale ondata rivoluzionaria che Stratfor sta monitorando riguarda il coinvolgimento dei militanti islamisti e la loro reazione agli eventi in corso. I militanti islamisti, e specificamente la fazione che al loro interno possiamo definire jihadista, hanno tentato a lungo di sovvertire i regimi nel mondo islamico. Con la sola eccezione dell'Afghanistan, non ci sono riusciti e, anche nel caso dell'ascesa dei Taliban in quel paese, il successo è consistito nel ristabilire l'ordine dopo un vuoto di potere e non nell'abbattimento di un coerente regime di governo preesistente. La breve supremazia del Supremo Consiglio delle corti islamiche in Somalia è stata reso possibile da un simile contesto caotico, caratterizzato dalla mancanza di un'autorità riconosciuta. Ad ogni modo, sebbene gli jihadisti non siano riusciti a rovesciare governi, essi sono comunque visti come una seria minaccia dai regimi di paesi come Tunisia, Egitto e Libia. Governi che hanno sempre utilizzato la mano pesante con i militanti radicali, combinando la repressione con severi programmi di controllo delle loro attività.
Mentre si susseguono i drammatici fatti libici, si fa strada la convinzione che, a differenza di Tunisia ed Egitto, la rivolta si possa risolvere non solo con la sostituzione dell'attuale governo ma anche con il crollo del regime e con il collasso dello Stato. In Egitto e Tunisia forti regimi militari sono stati in grado di garantire la stabilità anche dopo l'addio di due longevi presidenti. Invece, in Libia l'anziano governante, Muhammar Gheddafi, ha in passato deliberatamente favorito le divisioni e le debolezze all'interno dell'esercito e delle forze di sicurezza, in modo da renderli in tutto dipendenti dalla propria autorità. Di conseguenza, non vi è al momento un'istituzione che abbia la compattezza per prendere il controllo della situazione e sostituire Gheddafi in caso di crollo del regime. Ciò significa che la Libia, un paese ricco di risorse energetiche e quindi importante, rischia di avvitarsi nella spirale dell'instabilità; l'ambiente ideale per la proliferazione jihadista, come dimostrato dalla Somalia e dall'Afghanistan. Un motivo in più per analizzare con cura le dinamiche del jihadismo in Libia.
Una lunga storia
Diversi cittadini libici hanno preso parte negli anni ad operazioni militanti in Afghanistan, Bosnia, Cecenia e Iraq. Dopo aver lasciato l'Afghanistan nei primi anni novanta del secolo scorso, un consistente gruppo di jihadisti libici è tornato a casa, lanciando una campagna per sovvertire il regime di Gheddafi, ormai considerato un infedele. Nel 1995 la compagine eversiva si è ribattezzata "Gruppo combattente libico islamico" e si è data ad organizzare attività insurrezionali varie, inclusi alcuni tentativi di assassinare Gheddafi e diversi attacchi contro militari e forze di polizia.
Il Colonnello ha risposto col pugno di ferro, imponendo la legge marziale nelle roccaforti islamiste di Darnah e Bengasi e nelle città di Ras al-Helal e al-Qubbah nella regione di Jabal al-Akhdar. Dopo una serie di scontri militari, Gheddafi ha avuto ragione dell'insorgenza, debellata alla fine degli anni novanta. Molti jihadisti hanno così abbandonato il paese e alcuni di loro hanno trovato rifugio in gruppi legati ad al-Qaeda e si sono trasferiti in Afghanistan.
Se è vero che l'assidua frequentazione dei campi di battaglia del jihadismo internazionale da parte di cittadini libici non è mai stata espressamente incoraggiata da Tripoli, non vi è stato tuttavia alcun divieto esplicito. Il governo libico non ha fatto molto per impedire la partecipazione di singoli individui e gruppi ai conflitti che hanno insanguinato il mondo musulmano negli ultimi decenni. Il regime di Gheddafi, come molti altri nella regione, ha visto l'esportazione del jihadismo oltre confine come uno strumento per liberarsi di potenziali problemi in patria. Ogni estremista libico morto all'estero rappresentava un nemico in meno con cui confrontarsi all'interno. Questa politica non ha però tenuto conto del concetto di "darwinismo tattico": se è vero che gli Stati Uniti e i loro alleati hanno eliminato molti combattenti, i sopravvissuti sono diventati più forti e astuti. Banalizzando: i deboli e gli sprovveduti sono stati spazzati via, ma i più abili si sono fortificati, diventando combattenti esperti e pericolosi. Essi hanno appreso tattiche di sopravvivenza in condizioni estreme e di inferiorità militare, imparando a costruire e utilizzare ordigni improvvisati ma molto efficaci.
In un audio-messaggio del 3 novembre 2007, il numero due di al Qaeda, Ayman al-Zawahiri ha annunciato che il Gruppo combattente libico islamico si era unito al network dell'organizzazione terroristica. Un annuncio non certo sorprendente, considerando che i membri del gruppo sono stari per anni vicini ad al-Zawahiri e a Osama bin Laden. Inoltre, per lungo tempo, il nucleo centrale qaedista ha annoverato nella sua cabina di regia diversi personaggi libici: Abu Yahya al-Libi, Anas al-Libi, Abu Faraj al-Libi (che pare sia detenuto dagli Usa nella base di Guantanamo) e Abu Laith al-Libi, eliminato da un attacco aereo senza pilota in Pakistan nel gennaio 2008.
La reale portata del contributo libico allo sforzo jihadista in Iraq è diventata evidente con il recupero, nel settembre 2007, di un gran quantitativo di file personali nascosti in un rifugio di al Qaeda nella città irachena di Sinjar. I documenti rinvenuti a Sinjar rappresentavano solo una piccola parte dei nominativi dei combattenti diretti in Iraq; ciononostante, essi si sono rivelati particolarmente rilevanti. Dei 595 file personali recuperati, 112 riguardavano cittadini libici. Un numero inferiore ai 244 sauditi ma, valutando la consistenza relativa delle popolazioni dei due paesi, il contingente tripolino risultava essere il più significativo. I documenti di Sinjar suggeriscono dunque che, in termini percentuali, i libici sono coloro che nella regione più hanno partecipato al conflitto iracheno.
Un'altra peculiarità è emersa nella sezione dei file di Sinjar dedicata alle "aspirazioni" dei militanti. Tra i cittadini libici presenti in territorio iracheno e pronti a entrare in azione, l'85% si dichiarava pronto a diventare un attentatore suicida e solo il 13% ambiva al ruolo di semplice combattente. Invece, "solo" il 50% dei sauditi si candidava al martirio suicida. Da quanto si evince dai documenti rinvenuti a Sinjar, i libici impegnati in Iraq dovevano essere assai più radicali della media. Soltanto gli jihadisti di origine marocchina presenti in Iraq apparivano più determinati: il 91% di essi indicava una preferenza per il ruolo di attentatore suicida. Dati parziali ma inquietanti, che hanno convinto l'appartato di sicurezza del governo libico a monitorare attentamente quegli individui che, dopo aver combattuto in zone calde come Iraq e Afghanistan, hanno fatto ritorno in patria. Tripoli, allo stesso modo del governo saudita, ha adottato l'approccio del bastone e della carota verso gli jihadisti, in particolare con il Gruppo combattente libico islamico. Come risultato, queste formazioni non sono state in grado di minacciare seriamente il regime di Gheddafi e sono rimaste piuttosto quiescenti negli ultimi anni. In effetti, molti dei loro membri hanno smobilitato e sono stati, in una certa misura, riabilitati dal potere ufficiale. Il figlio di Gheddafi, Seif al-Islam, ha supervisionato il reinserimento pacifico dei militanti, un processo gestito dalla sua organizzazione caritatevole.
Tornando ai dati emersi dai report di Sinjar, si evince che più del 60% dei combattenti libici dichiaravano di provenire dalla città di Darnah e il 24% da Bengasi. Entrambe, come ormai noto, si trovano nella zona orientale del Paese e sono state teatro in questi giorni delle più violente manifestazioni contro Gheddafi. Vi sono stati assalti ai depositi di armi nelle due città e in entrambi i casi fonti di Stratfor hanno riferito come tra i saccheggiatori vi fossero membri di gruppi islamisti organizzati.
Un documento del Dipartimento di Stato Usa redatto a Tripoli nel giugno 2008 e diffuso da WikiLeaks trattava appunto della diffusione del radicalismo nella Libia orientale. Il cablogramma titolato "Duri a morire a Derna" è stato scritto diversi mesi dopo la diffusione del rapporto sui file di Sinjar. Derna è una traslitterazione di Darnah, e duri a morire "Die Hard" è un riferimento al personaggio di Bruce Willis nell'omonima serie cinematografica. Insomma, la diplomazia statunitense ha già preso atto da tempo della presenza e della resilienza del jihadismo in Libia. L'autore del documento, un funzionario politico-economico dell'ambasciata Usa, ha notato che molti dei combattenti rientrati in patria dopo aver combattuto all'estero si sono stabiliti in luoghi che, come Darnah, sono caratterizzati dalla relativa debolezza degli apparati statali. L'autore del "cable" ha anche espresso il timore che la presenza dei vecchi combattenti finisca per influenzare i più giovani, radicalizzandoli e trasformando l'area in un punto di raccolta di combattenti pronti a fuoriuscire verso il teatro iracheno (ripetiamo, si tratta di un documento del 2008, ndt). A ciò si aggiungeva l'inquietante circostanza, notava l'autore, che il 60-70% dei giovani nelle regione fossero disoccupati o sotto-occupati.
Infine, il funzionario Usa suggeriva che molti dei militanti considerassero la guerra in Iraq come un mezzo per attaccare gli Stati Uniti ("il nemico lontano"), che accusavano di sostenere da qualche anno il regime libico. Una scelta, quella dell'infiltrazione in Iraq per combattere e suicidarsi in attacchi kamikaze, in linea con l'approccio tattico del jihadismo transnazionale.
Guai all'orizzonte?
La profonda infiltrazione del radicalismo nella Libia orientale ci riporta all'inizio del nostro discorso. Mentre sembra improbabile che a questo punto gli jihadisti prendano in qualche modo il controllo della Libia, se Gheddafi dovesse cadere e si assistesse a un periodo di caos nel paese per i militanti islamisti si aprirebbe uno spazio operativo inusitato e invitante. Tuttavia, anche nel caso in cui il regime non crollasse e si scatenasse una guerra civile tra l'area occidentale e quella orientale del Paese, costoro guadagnerebbero una notevole libertà di manovra. Persino nell'eventualità che il Colonnello o nuove autorità ristabilissero l'ordine pubblico, i militanti islamisti, in conseguenza dei saccheggi compiuti negli ultimi giorni nei depositi militari, potrebbero contare su armi ed equipaggiamenti in quantità. Decisi, addestrati e armati fino ai denti, rappresenterebbero una minaccia seria per chiunque volesse stabilizzare la Libia.
Vanificati gli accordi col regime di Gheddafi e aprendosi una promettente finestra di opportunità, il semi-smobilitato Gruppo combattente libico islamico potrebbe tornare attivo oppure frazionarsi: gli elementi più estremisti finirebbero così per creare nuove unità jihadiste, in grado di muoversi più liberamente in un ambiente meno controllato che in passato. Senza contare che, al momento, non tutti i militanti islamisti libici sono riconducibili al Gruppo e non hanno quindi in essere alcun accordo con il governo. Essi sono semplicemente in stato di quiescenza.
I saccheggi di armi nei depositi libici ricordano sinistramente quanto avvenuto in Iraq nel 2003 in seguito alla dissoluzione dell'esercito nazionale dopo l'invasione americana. Il materiale allora trafugato è stato utilizzato non solo in combattimento, in migliaia di confronti armati e di attacchi a distanza con razzi e colpi di mortaio, ma anche per la fabbricazione di potenti ordigni artigianali. Tecniche efficaci nella guerra asimmetrica che i veterani libici di rientro da Afghanistan e Iraq potrebbero riproporre nel teatro domestico. Presagi nefasti per gli interessi stranieri in Libia, un paese sinora non piagato dall'instabilità e dall'insicurezza. Se gli jihadisti adottassero tra le tecniche di lotta l'attacco al "nemico lontano", in qualche modo alleato di un governo locale sgradito, i temuti assalti alle compagnie petrolifere straniere, alle sedi diplomatiche e agli hotel non sarebbero da escludere. Seif al-Islam, che ha senz'altro i suoi buoni motivi politici per ricordare a tutti la minaccia jihadista, lo ha già fatto presente. Un appello interessato, ma che dovrebbe far riflettere i paesi vicini, come l'Egitto e l'Italia. Infatti, il Cairo e Roma farebbero bene a preoccuparsi non solo del problema (pur serio) dei profughi, ma anche della possibile infiltrazione degli jihadisti. Le armi trafugate in Libia potrebbero essere vendute nelle piazze egiziane, tunisine e algerine. Nel peggiore degli scenari, nel caso in Libia si determinasse un vuoto di potere, non è da escludere che essa si trasformi in un nuovo Iraq o in un nuovo Pakistan: un porto franco per i militanti provenienti da tutta la regione e da tutto il mondo. Del resto, già negli anni settanta-ottanta la Libia ha accolto un gran numero di militanti e sovversivi, non necessariamente islamisti, provenienti da svariate regioni in conflitto. Insomma, non mancano i motivi per monitorare giorno per giorno gli esiti della crisi libica, non solo per conoscere il destino di Gheddafi ma per individuare tempestivamente quanto forte ed estesa sarà la rinascita del jihadismo nel Paese (Traduzione a cura di Fabio Lucchini)