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IL MEDIO ORIENTE SECONDO TONY BLAIR
Prospect, marzo 2011,

Sollecitato da Donald Macintyre, che gli domanda provocatoriamente se, in qualità di inviato del Quartetto in Medio Oriente, non si consideri impegnato a favore di una causa persa, intendendo ovviamente l'impossibilità di risolvere il conflitto israelo-palestinese, Tony Blair sorride e risponde negativamente. Credo non sia una causa persa, esordisce Blair. Due sono i motivi principali che mi inducono a credere a una pace basata sulla soluzione "due popoli, due Stati"; da un lato, non vi è un'alternativa praticabile in grado di garantire la sicurezza di Israele, dall'altro la stragrande maggioranza degli israeliani e dei palestinesi è favorevole alla two-state solution.

Molti osservatori sono convinti che il maggior rischio per la stabilità mediorientale sia l'Iran, ma è solo parzialmente così. Gran parte della pericolosità dell'Iran è dovuta alla sua capacità di strumentalizzare la questione palestinese presso le masse arabe. Questo dovrebbe spingere sia la comunità internazionale sia gli Stati arabi a disinnescare il potenziale destabilizzante insito nell'impasse israelo-palestinese e suscettibile di alimentare la deriva estremistica che l'Iran auspica e spesso finanzia.

Dalla mia esperienza come primo ministro britannico e come inviato del Quartetto (Onu, Ue, Stati Uniti e Russia), prosegue Blair, ho compreso che le più grosse difficoltà non si manifestano nei dettagli del negoziato tra le parti, ma all'interno dei due fronti. Il problema avvertito con più urgenza dagli israeliani è la sicurezza, mentre i palestinesi vivono con rabbiosa sofferenza un senso di perenne ingiustizia. Sotto questo profilo, lo sviluppo economico della Palestina rimane una priorità, in modo che i suoi abitanti non avvertano più  il disagio che rende loro impossibile fidarsi della controparte. Inoltre, la crescita e la conseguente diffusione del benessere allenterebbero la presa dell'estremismo non solo in Cisgiordania ma anche a Gaza.

Voglio comunque ricordare come la situazione materiale dei palestinesi sia migliorata nel corso degli ultimi tre anni. A Jenin come a Ramallah, a Gerico come a Nablus. Ora bisogna insistere, combinando il negoziato politico allo sviluppo umano e lavorando per accrescere la partecipazione del basso. La tanto bistrattata Autorità Nazionale Palestinese (Anp) si sta anche impegnando per costruire un affidabile sistema giudiziario e carcerario che si appoggi su forze di polizia e magistrati leali ed efficienti. Progressi che devono essere incoraggiati per riaprire il negoziato ed è importante che il governo Netanyahu faccia la sua parte, indicando con chiarezza quale linea politica intende perseguire: abbiamo bisogno di sapere se l'esecutivo israeliano consideri ancora praticabile la nascita di uno Stato palestinese indipendente e la conclusione del processo di pace.

E' interessante comprendere la psicologia collettiva israeliana, soprattutto per come si è sviluppata nell'ultimo decennio. Anni caratterizzati da decine di morti tra i civili. Anche i palestinesi hanno avuto le loro vittime, ben più numerose, ma la narrazione israeliana si sofferma su quanti hanno perso la vita negli attacchi terroristici legati alla Seconda Intifada, scoppiata nel 2000. La narrazione insiste sullo sgombero unilaterale dei coloni israeliani dalla Striscia di Gaza nel 2005, cui ha fatto seguito l'ascesa di Hamas, una formazione islamista che non ha mai abbandonato la sua retorica violenta contro Israele. Oltre a ciò, il rafforzamento di Hezbollah in Libano e le minacce iraniane hanno contribuito ad acuire l'insicurezza esistenziale percepita dallo Stato ebraico. Questa può essere una visione parziale, ma rappresenta la realtà che si vive in Israele e che frena le aperture verso i palestinesi.

Obama sembra aver accantonato il conflitto mediorientale, suggerisce Macintyre. No, non direi, replica Blair. La questione resta una priorità per gli Stati Uniti e sono convinto che l'amministrazione in carica troverà il modo di portare avanti il processo di pace. A nessuno sfugge (e qui vedo una continuità con George W. Bush) che realizzare la convivenza tra uno Stato ebraico ed uno musulmano/palestinese darebbe una spinta decisiva alla diffusione della democrazia nell'area. La dimostrazione che la comprensione tra diverse civilizzazioni è nonostante tutto possibile.

Io non dispero, conclude Blair. I popoli israeliano e palestinese vogliono la pace, ma attualmente non credono di avere nella controparte un interlocutore affidabile. I palestinesi vedono nello Stato ebraico l'oppressore, gli israeliani, nei fatti, diffidano sia di Fatah (per la sua debolezza) che di Hamas (per ovvi motivi). Proprio a Gaza si gioca la partita più importante. Per vincerla dobbiamo far arrivare il nostro aiuto alle persone che ci vivono. Israele ha il diritto di adottare misure per garantire la propria sicurezza, ma l'isolamento della Striscia non fa altro che peggiorare le condizioni di vita della popolazione, esasperando gli animi. Come migliorare le condizioni dei diseredati di Gaza? Con gli aiuti umanitari, ma non solo. Io insisto sullo sviluppo del settore privato e sull'innalzamento del livello di scolarizzazione. Oggi Hamas domina Gaza, ma sono certo che la popolazione locale supporterebbe l'Anp se solo la disperazione attuale venisse rimpiazzata da concrete prospettive di pace e benessere. Non ho dubbi al riguardo. (A cura di Fabio Lucchini)


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