Asia Times Online, Aprile 2011,
Le grandi campagne militari in Medio Oriente si svolgono storicamente nei mesi estivi; le condizioni meteo sono ottimali, le azioni aeree acquistano in efficacia e le manovre per le forze di terra risultano più agevoli. Quest'anno, nota Victor Kotsev, giornalista basato a Tel Aviv e collaboratore di Asia Times, altri fattori specifici contribuiscono a innalzare il rischio di una nuova deflagrazione regionale. Oltre che dai sommovimenti rivoluzionari nel mondo arabo e dalle temute ondate contro-rivoluzionarie, i prossimi mesi potrebbero essere caratterizzati dalle crescenti tensioni tra sunniti e sciiti nel Golfo Persico, dalla possibile dichiarazione d'indipendenza palestinese e dall'eventuale coinvolgimento di Israele in uno scontro militare. Considerando la frenetica corsa agli armamenti degli ultimi anni, non è difficile immaginare la virulenza e la brutalità della prossima guerra mediorientale.
Gli aspetti economici non devono essere sottovalutati. Il valore dell'oro e dell'argento ha raggiunto un livello senza precedenti, mentre il petrolio ha superato i 110 dollari al barile. Queste impennate sono evidentemente legate alla crisi finanziaria globale e alle pressioni inflazionistiche sulle maggiori valute, ma anche all'effetto speculativo dovuto alla volatilità politica e militare del Medio Oriente. In particolare, l'oro e l'argento vengono sempre più considerati beni rifugio in una fase storica afflitta da continue oscillazioni politiche e finanziarie, mentre i prezzi del petrolio (come in passato) risentono degli incerti sviluppi delle vicende mediorientali.
La situazione è davvero preoccupante, ammette Kotsev dalla sua prospettiva privilegiata di Tel Aviv. La brutale repressione di cui si sta rendendo protagonista il regime di Assad non garantisce la sopravvivenza dell'attuale governo di Damasco, che sta rischiando di collassare. Uno scenario sgradito ad Ankara come a Teheran. Lo stesso governo israeliano ne sarebbe tutt'altro che felice. Il crollo degli Assad e la perdita di controllo sull'arsenale siriano avrebbero come effetto immediato il rafforzamento militare di Hezbollah, Hamas e del PKK curdo, che potrebbero entrare in possesso di migliaia di missili a medio raggio, di altri armamenti convenzionali e di agenti chimici.
Kotsev, che cita tra le sue fonti privilegiate il think tank americano Stratfor, prende in considerazione gli altri fronti caldi della regione per abbozzare la descrizione di un quadro geopolitico in insidioso movimento. In Libia, la coalizione occidentale non sembra avere le idee chiare. Il fallito tentativo di eliminare fisicamente Gheddafi denuncia la mancanza di un disegno politico-militare complessivo, mentre il colonnello ha deciso di lasciare ai ribelli la città di Misurata, ma solo per intensificare il conflitto nelle aree montagnose occidentali del Paese. Nel frattempo, la situazione nello Yemen rimane volatile, condizionata dalle divergenti priorità strategiche di due potenze regionali come Arabia Saudita e Iran. Ryadh e Teheran stanno combattendo un'indiretta battaglia di interessi nell'intero Golfo Persico. Anche in quest'ottica va considerata la crisi siriana. Damasco è il maggior alleato dell'Iran, che segue con estrema apprensione le difficoltà di Assad. Da parte loro, i sauditi avrebbero molto da guadagnare da un inasprimento delle rivolte siriane e, sebbene non sia chiaro il ruolo di Ryadh negli avvenimenti delle ultime settimane, non è escluso un prossimo attivo coinvolgimento saudita in Siria. Un attivismo che ripagherebbe l'Iran per il suo coinvolgimento nelle recenti proteste anti-governative in Bahrain e Yemen, autentiche spine del fianco anche per la stabilità interna dell'Arabia Saudita.
Ulteriore elemento di stress per i sauditi è rappresentato dall'evolvere delle relazioni con Washington. La famiglia reale saudita è rimasta parecchio delusa dal modo sbrigativo con cui Obama ha abbandonato al suo destino Mubarak e sembra intenzionata a testare la fedeltà americana chiedendo alla Casa Bianca un maggiore impegno nel Golfo. Oltre a un maggiore sostegno Usa per interdire le ingerenze di Teheran nella Penisola Arabica (vedi Bahrain), i sauditi chiedono a Obama un parziale cambio di rotta in Iraq. Gli analisti di Stratfor considerano il graduale ritiro americano da Baghdad come uno dei maggiori fattori di instabilità per l'intera regione. Non è un caso, evidenziano, che il ritiro delle forze Usa dall'Iraq abbia coinciso con una vigorosa ondata di tumulti e sommovimenti nell'intero mondo arabo. Inoltre, il disimpegno statunitense ha galvanizzato l'Iran, ancor più determinato a perseguire lo status di potenza dominante nel Golfo mediante lo strumento della destabilizzazione dei paesi dell'area. Non dimentichiamo la maggioranza sciita del Bahrain e la consistente minoranza che vive nella stessa Arabia Saudita. Due leve non trascurabili, che Teheran ha già azionato più volte dalla rivoluzione khomeinista in poi.
Nel caso l'alleato statunitense non fosse recettivo alle sue richieste, il governo saudita potrebbe presto guardare altrove. Al Pakistan o addirittura alla Cina, suggerisce John Hanna in un articolo per la prestigiosa rivista Foreign Policy. In particolare, non è da escludere che l'Arabia Saudita si allontani dalla ultra-sessantennale protezione americana, decidendo di costruirsi un consistente deterrente missilistico (anche non convenzionale) o addirittura di affidarsi alla consulenza militare pakistana in funzione anti-iraniana. Suggestioni estreme? Non è scontato, soprattutto alla luce dell'improvvisa e inattesa accelerazione che le dinamiche mediorientali hanno conosciuto negli ultimi mesi.
L'amministrazione Usa si muove con cautela e valuta se mantenere o meno una seppur minima presenza militare in Iraq dopo il 31 dicembre 2011. Secondo le fonti di Stratfor, sarebbe stata intavolata una trattativa in tal senso con il governo iracheno, ma vi è il rischio che la permanenza di un piccolo contingente americano non sposti gli equilibri di forza nella regione e abbia come unico effetto la crescente irritazione di Ahmadinejad. Con buona pace di quegli analisti che ritengono plausibile un riavvicinamento diplomatico tra Washington e Teheran. Forse è troppo tardi.
Infatti, mentre gli iraniani lamentano l'ennesima incursione informatica per danneggiare l'avanzamento del loro programma nucleare, Israele mantiene da qualche tempo un inquietante silenzio. Molti ritengono si tratti di una manovra diversiva che potrebbe anticipare una mossa a sorpresa. Non sarebbe la prima volta nella storia militare e strategica israeliana. Per certo il governo israeliano non ha cambiato opinione sulla pericolosità del programma nucleare iraniano o sulle insidie portate alla propria sicurezza dal sodalizio degli ayatollah con Hamas ed Hezbollah. La recente pubblicazione di alcune mappe che dettagliano le postazioni di Hezbollah nel Libano meridionale è stata interpretata da molti come il tentativo di preparare l'opinione pubblica israeliana a una nuova campagna militare contro il movimento capeggiato da Nasrallah che, come noto, attaccherebbe Israele non appena lo Stato ebraico decidesse di colpire il programma nucleare iraniano.
Il premier Netanyahu ha promesso solennemente di scongiurare l'eventualità di un Iran atomico e la (scarsa) fiducia israeliana in un intervento definitivo della diplomazia internazionale sul dossier nucleare sta rapidamente scemando. Come se non bastasse, l'intenzione espressa da parte palestinese di dichiarare presto l'indipendenza unilaterale sta scaldando gli animi delle ali più estreme della coalizione che regge il governo Netanyahu. Tutti fattori che potrebbero spingere il primo ministro alla decisione di rompere gli indugi sul fronte iraniano.
Dopo la speranza di una primavera araba, gli elementi di rischio oggettivamente presenti sul terreno stanno dunque raffreddando gli entusiasmi e prefigurano il rischio dell'ennesimo conflitto mediorientale, che, considerando il repentino allargamento dell'area di instabilità regionale, potrebbe determinare conseguenze più ampie e durature rispetto al recente passato. (A cura di Fabio Lucchini)