New York Review of Books, giugno 2011,
L'ambizione di Obama non ha limiti. Non gli basta la Casa Bianca, vorrebbe essere il presidente del mondo. Lo si evince dalla sua brama di potere? No, dal suo stile comunicativo. Una simile pretesa riduce tuttavia i margini di errore, nota
David Bromwich, professore dell'Università di Yale. In effetti, nel lasso di tempo intercorso tra l'ormai celebre discorso del Cairo del 2009 (la grande apertura al mondo islamico) e il ragionamento proposto di recente al Dipartimento di Stato sulla situazione mediorientale (19 maggio), le contraddizioni e le incongruenze non sono mancate. Con il risultato di scatenare reazioni di vario tipo tra i destinatari dei messaggi presidenziali: dall'entusiasmo all'irritazione, dalla speranza alla perplessità. Di certo Obama ha sinora dimostrato di preferire l'autorevolezza simbolica della parola all'autorità reale della politica. Sotto questo profilo, l'eliminazione di Osama bin Laden e la tentata uccisione di uno dei suoi più promettenti eredi, Anwar al-Awlaki, appaiono come le eccezioni che confermano la regola.
Nel suo ultimo discorso sul Medio Oriente del 19 maggio scorso, Obama ha confermato la sua predilezione per il
Grand Speech, strumento che egli indubbiamente padroneggia come pochi. Tutte le volte che si rivolge a una platea internazionale, il presidente sembra farsi portavoce di un'America matura e consapevole che indica in modo benevolo agli altri Paesi come comportarsi per il meglio. Un atteggiamento un po' paternalistico, che spesso appare vago e contradditorio e che dovrebbe essere corretto per evitare che l'afflato collaborativo e multilateralista di Obama finisca per danneggiare la leadership globale che gli Usa vorrebbero ancora mantenere.
E' in Medio Oriente che la retorica obamiana ha patito qualche passaggio a vuoto negli ultimi mesi. In molti dei suoi commenti pubblici relativi alla Primavera Araba, il presidente Usa è ricorso a una grammatica suggestiva, ma nei fatti poco chiara. Questa in sintesi la posizione della Casa Bianca sui sommovimenti arabi che hanno portato al rovesciamento dei regimi tunisino ed egiziano e alle crisi libica, siriana e yemenita: "La protesta non violenta e le riforme pacifiche sono gli unici mezzi che sosterremo, la democrazia costituzionale l'unico esito politico che approveremo". Una posizione esemplificata con tre esempi tratti dalla storia patria: la ribellione americana contro l'Impero britannico, la guerra civile per l'abolizione della schiavitù e il movimento per i diritti civili. Due di questi eventi, che hanno permesso alla democrazia Usa di crescere e consolidarsi, rimandano tuttavia a conflitti bellici, lunghi e violenti. Una contraddizione evidente con gli appelli al gradualismo pacifico rivolti da Obama alla platea araba.
La scarsa coerenza della linea mediorientale americana, almeno per come emerge dagli interventi presidenziali, si riscontra nel diverso tono utilizzato dalla Casa Bianca nei confronti dei leader arabi minacciati dalle rivolte o già estromessi dal potere. "Gheddafi se ne deve andare", ha tuonato un Obama invece più accomodante con il presidente yemenita Ali Abdullah Saleh, alleato nella
war on terror ma comunque attivo nella repressione dei civili. E che dire dell'atteggiamento rispettoso tenuto dal presidente Usa nei confronti del leader siriano, Bashar Assad, durissimo con i contestatori interni e tutt'altro che amato a Washington per via dei suoi noti legami con l'Iran? Intermedio l'atteggiamento verso Hosni Mubarak, più volte invitato, prima della sua definitiva caduta, a "favorire un'immediata e pacifica transizione in Egitto".
E allora, qual è la concreta risposta di Obama alla Primavera Araba e alla violenta repressione di molti governi? Soldi. Favorire la stabilità finanziaria, promuovere le riforme e integrare le democrazie arabe emergenti nell'economia internazionale. Un esempio? La decisione di condonare un miliardo di dollari di debiti egiziani e di prestare lo stesso ammontare al nuovo governo del Cairo. "Gli Stati Uniti sosterranno gli sforzi per aiutare l'Egitto a recuperare quelle risorse che gli sono state sottratte in passato", promette Obama, forse riferendosi alle abitudini truffaldine della vecchia dirigenza.
Impossibile tralasciare il dossier israelo-palestinese. Dopo le recenti incomprensioni con il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, rispetto alla corretta definizione dei "confini del ‘67", rimane l'impressione che la strategia di Obama sia pesantemente influenzata dai consigli di centristi filo-israeliani come il noto giornalista Thomas Friedman. L'occupazione non è sostenibile in eterno, ma il problema deve essere risolto da israeliani e palestinesi. Inutile fare pressioni, lanciare appelli o imporre termini e condizioni. I due popoli vogliono la pace più di quanto essa stia a cuore all'America. Si tratta di aspettare il lento lavorìo del tempo e auspicare che i due contendenti si convincano infine a seguire il virtuoso parere americano e addivengano a un compromesso. L'analisi di Bromwich rischia qui di scadere nella superficialità, ma è difficile smentirlo
quando esclude nuove, serie, iniziative americane prima delle elezioni del 2012. La lunga campagna elettorale è già alle porte. Dobbiamo attenderci altri diciassette mesi di inerzia in Medio Oriente? (A cura di Fabio Lucchini)