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L'ULTIMA MOSSA DI ASSAD
National Review, giugno 2011,

Bashar Assad, per la seconda volta in poche settimane, ha cercato di distrarre l'attenzione mondiale dai massacri di civili che il suo regime sta compiendo. E' acclarato, sostiene Benjamin Weinthal  della Foundation for Defense of Democracies, come lo scorso weekend il governo siriano abbia incoraggiato (anche economicamente) contadini siriani e attivisti filo-palestinesi a forzare la zona demilitarizzata lungo le Alture del Golan per entrare illegalmente in Israele. La dura risposta dell'esercito ha provocato un numero imprecisato di vittime, rispetto al quale si è scatenata la consueta battaglia mediatica delle cifre. Fonti di Damasco citate dal New York Times parlano di 23 vittime, l'esercito israeliano sostiene di aver colpito una decina di manifestanti particolarmente violenti e pericolosi.

Il governo di Damasco si affida in questo ore difficili al suo tradizionale metodo dissimulatorio, nel tentativo di convincere i siriani che il malessere socio-economico e la negazione della libertà d'espressione che attanagliano il Paese da anni siano in qualche modo riconducibili all'esistenza dello Stato ebraico. Ma la fine per Assad pare avvicinarsi. I piccoli movimenti che spuntano ovunque in Sira stanno cercando di dissolvere il suo regime e la gran parte dei connazionali ha da lungo tempo compreso a chi sia attribuibile l'origine dei mali del Paese. Cosa aspettano il presidente Obama e il segretario di Stato Clinton a dichiarare Assad per quello che è, ossia l'uomo di ieri? Una netta presa di posizione della Casa Bianca sarebbe linfa vitale per i democratici siriani.

Molti si chiedono se Obama estenderà la sua tacita applicazione della Freedom Agenda inaugurata da  George W. Bush a Siria e Iran. Un'evoluzione democratica dei due Paesi taciterebbe la violenta retorica anti-occidentale degli attuali governi e favorirebbe una più serena ripresa del processo di pace in Medio Oriente. Dal canto suo, il presidente Usa in  un recente discorso a Westminster ha parlato chiaro: "La storia ci dice che la democrazia non è mai facile. Occorreranno anni prima che queste rivoluzioni (arabe, ndr)  arrivino alla loro conclusione, e lungo quella strada ci saranno giorni difficili. Il potere raramente si arrende senza combattere. Ma quello che abbiamo visto a Teheran, a Tunisi e sulla Piazza Tahrir è un anelito alla stessa libertà che noi, a casa nostra, diamo per scontata, è un rifiuto dell'idea che i popoli di alcune parti del mondo non vogliono essere liberi, o hanno bisogno di una democrazia imposta dall'alto. Nessuna esitazione: Stati Uniti e Regno Unito stanno a fianco di coloro che anelano a essere liberi. E adesso dobbiamo mostrare che appoggeremo quelle parole con i fatti (Traduzione pubblicata da La Stampa, 26/05/2011)".
 
NON E’ PIU’ LA SIRIA DI ASSAD
Daily Star, giugno 2011,

Radwan Ziadeh, direttore del Damascus Center for Human Rights Studies e visiting scholar presso la George Washington University, immagina che il cambiamento nel mondo arabo finirà per investire ineluttabilmente la Siria. Il confronto col passato lo suggerisce. Durante gli anni ottanta, Hafez Assad, padre dell'attuale presidente, spazzò via la dissidenza dei Fratelli Musulmani, esautorando completamente governo e parlamento e concentrando il potere nelle mani dei circoli dominanti alawiti (la setta sciita che esprime l'attuale leadership). Bashar Assad sta replicando quel modello, ma molto è cambiato da allora.

In primo luogo, le proteste anti-governative sono molto più diffuse, poiché non si limitano a pochi centri urbani ma toccano diverse dozzine di città in tutto il Paese. In secondo luogo, le dimostrazioni sono state ampiamente pacifiche sin da loro nascere, lo scorso 15 marzo. La stragrande maggioranza dei dissidenti ha evitato con attenzione di ricorrere alla violenza, lasciando alle forze di sicurezza la responsabilità dello spargimento di sangue delle ultime settimane (secondo alcune stime, 1200 morti in due mesi). In terzo luogo, il ruolo dei media è cambiato. Le decine di migliaia di morti assassinati nella città di Hama nel 1982 rimasero per anni nell'ombra, mentre grazie alla rivoluzione tecnologica di Internet, Youtube, Facebook e Twitter è possibile sapere quasi tutto in tempo reale.  Infine, l'atteggiamento della comunità internazionale è mutato. Negli anni ottanta Damasco godeva della protezione sovietica, mentre gli Usa e il resto della comunità internazionale si comportavano come se non avessero precisa contezza dei tragici fatti di Hama. Washington successivamente scelse comunque di chiudere un occhio davanti alle colpe siriane dopo la decisione di Assad padre di unirsi alla coalizione anti-irachena ai tempi della prima guerra del Golfo. Oggi il vento è cambiato, anche se la semplice ostilità verso il regime siriano non è sufficiente. Serve di più.

E' necessario che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite voti una risoluzione che condanni la violenza contro i manifestanti e che approvi decise sanzioni contro gli individui e le istituzioni responsabili. Sanzioni assimilabili a quelle già adottate da Unione Europea e Stati Uniti. Il dossier Siria deve finire davanti alla Corte Penale Internazionale, come nel caso della Libia. Differenze di trattamento non sono giustificabili. Solo con scelte politiche nette e trasparenti la comunità internazionale aiuterà il popolo siriano a liberarsi dalla tirannia. (A cura di Fabio Lucchini)
 

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