La riconferma elettorale, netta ma non dilagante, del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp), la formazione islamista moderata guidata da Erdogan, e le sue conseguenze sull’attiva politica estera turca meritano un approfondimento, che Stratfor affida a George Friedman. Giunto al suo terzo mandato consecutivo, l’Akp ha chiaramente dato una svolta alla politica interna ed estera di Ankara. Sotto vari aspetti, la Turchia è il paese più ricco e potente del mondo musulmano e l’idea che possa adottare un’agenda politica islamista sconcerta molti nel sistema internazionale, Stati Uniti in testa. Se questo timore si rivelasse fondato e la Turchia si avvicinasse all’islamismo radicale – una possibilità che Friedman non considera realistica – si tratterebbe di un’autentica catastrofe geopolitica per il mondo occidentale.
La Turchia si affaccia su una delle più importanti vie d’acqua al mondo, il Bosforo, all’intersezione del Mar Nero e del Mediterraneo, e confina con l’Europa, l’Iran e il mondo arabo. Non può essere uno Stato marginale. Sino alla fine della Guerra Fredda, gli Stati Uniti consideravano naturale la propria alleanza con Ankara, ma il settembre 2001 ha cambiato molte cose. Nel 2003, l’anno successivo la storica vittoria dell’Akp ai danni delle forze laiche storicamente egemoni in Turchia, Ankara ha opposto un rifiuto agli Usa, che intendevano mandare truppe in Iraq dal territorio turco. Non è stata una rottura, ma un evento che ha lasciato il segno nei rapporti bilaterali. Come noto, anche con l’Europa le tensioni non sono mancate. Le motivazioni addotte in passato dagli europei per impedire l’accesso turco nell’Unione erano legate alle scarse performance economiche di Ankara, una tesi ormai indifendibile. Il problema riguarda evidentemente il timore che l’accesso della Turchia nell’Ue sia il preludio a un’imponente ondata migratoria. Queste difficoltà, latenti da tempo ma emerse con forza nell’ultimo decennio, concorrono a determinare la sensazione che la Turchia sia stia allontanando e venga respinta dall’Occidente.
Alla Turchia non resta che il mondo islamico? Mentre gli Usa si ritirano gradualmente dal Grande Medio Oriente, dall’instabilità dell’area emerge una Turchia sempre più assertiva e determinata. Quando lo scorso anno la freedom flottilla è partita per Gaza ed è stata intercettata da Israele, Ankara non è retrocessa, convinta che il suo ruolo nell’episodio fosse consono alle sue ambizioni di potenza regionale. Da parte sua, Israele ha accusato Erdogan di supportare l’islamismo radicale. Non si è trattato di un misunderstanding, ma di un gioco delle parti tutt’altro che inedito. Da sempre le potenze egemoni guardano con sospetto l’emergere di un nuovo attore sulla scena internazionale, e viceversa. Questo spiega le tensioni tra gli americani (e gli israeliani) da un lato e i turchi dall’altro. Così, è presumibile che i paesi che avevano forti legami con la Turchia se ne allontanino presto e che altre alleanze si formino. Si tratta di un fenomeno ciclico, che accompagna l’ascesa e il declino degli attori internazionali.
Friedman non considera ancora la Turchia una potenza matura per determinare gli equilibri regionali, ma suggerisce che presto potrebbe diventarlo: “Il modo in cui sta gestendo la crisi siriana e la primavera araba nel suo complesso – più retorico che sostanziale – ridimensiona la sua reale influenza sugli eventi regionali. Tuttavia, Ankara è ormai entrata nel giro che conta.”
Proprio in riferimento alle vicende siriane, non è un mistero che il premier Erdogan saluterebbe con piacere una vittoria dei ribelli sunniti contro le forze di Assad (spalleggiate da Iran e Hezbollah). Secondo l’interpretazione di Debka file un simile esito rilancerebbe le aspirazione egemoniche di Ankara sul mondo islamico sunnita, compensando l’inerzia mostrata dai turchi al momento dello scoppio delle rivoluzioni nel mondo arabo. La decisione turca di inviare truppe al confine e di stabilire una zona cuscinetto sul versante siriano della frontiera è un’operazione netta che pone Erdogan in contrasto con Teheran e con gran parte del mondo sciita.
I sunniti del Medio Oriente nel frattempo osservano, in attesa di capire quanti correligionari diserteranno dalle truppe siriane impegnate nella repressione. Se il fenomeno dovesse essere consistente, l’effetto sarebbe catastrofico per le sorti del regime. Sarebbe anche il primo successo militare significativo per i Fratelli Musulmani, sinora nelle retrovie dei fatti straordinari che stanno trasformando Tunisia, Egitto, Yemen e Libia.
Cosa differenzia le nazioni appena citate della Siria? Lo storico palestinese, Bashir Moussa Nafie, in un contributo per il quotidiano panarabo londinese al-Quds al-Arabi ripreso da Medarabnews, fa riferimento all’eccezione siriana. “Dallo scoppio del movimento popolare siriano, diversi intellettuali e opinion leader arabi hanno iniziato a dare visibilità e sostegno al popolo siriano e al suo movimento. Ma una parte significativa di essi si è affrettata a difendere il regime, o ha scelto di tacere e di ignorare del tutto la questione. Ciò che ha contribuito a questa strana posizione, che non ha avuto eguali nella risposta araba alle due rivoluzioni tunisina e egiziana, è ciò che viene comunemente detta “l’eccezione siriana”. Si dice che la Siria sia diversa e che il regime siriano sia diverso rispetto a quello tunisino ed egiziano, e probabilmente anche rispetto a quello yemenita e libico. La Siria è lo Stato della resistenza, che si è levato e si leva contro l’influenza americana e la politica di aggressione israeliana, e al fianco della resistenza araba e islamica in Libano e in Palestina. Come possiamo permettere che il regime siriano sia destabilizzato e che la Siria sia spinta sull’orlo del disordine?”. … “La verità, naturalmente, è che gli arabi, gli arabi soprattutto, non possono permettersi, né politicamente né moralmente, di prendere una tale posizione sulla questione siriana. Un governo che si trova ad affrontare le rivendicazioni di riforme da parte del popolo soprattutto riguardo all’uso politico della violenza e delle uccisioni … non merita scuse, non merita che ci si schieri al suo fianco e non merita il silenzio per i suoi crimini.” … “Naturalmente, nessuno può ignorare l’importanza geopolitica della Siria e il ruolo a cui essa aspira nel determinare il destino e il futuro degli arabi e del Mashreq arabo. E nessuno può ignorare il fatto che la rivoluzione non è un passatempo o un evento naturale nella vita delle nazioni e dei popoli. La tutela dell’unità e della stabilità della Siria e delle sue risorse deve essere una questione araba di fondamentale importanza. Ma ciò va fatto stando al fianco del popolo siriano e delle sue rivendicazioni, rafforzando il movimento di protesta e cercando di garantire che esso raggiunga i suoi obiettivi – così come li ha definiti il popolo siriano stesso – nel tempo più breve possibile, non comportandosi come se alcuni arabi rappresentassero i siriani o fossero più importanti del popolo siriano nel valutare l’interesse del loro stesso paese. In sintesi, per proteggere la Siria, dobbiamo porre fine all’illusione dell’eccezione siriana”, conclude Nafie.
Entro la metà del mese di luglio, Barack Obama presenterà un piano il disimpegno statunitense dall’Afghanistan, che ridurrà le truppe nel Paese di circa 30.000 unità e che proseguirà sino a un ritiro completo in 12-18 mesi. Tuttavia, precisa Leslie Gelb, ex editorialista del New York Times e autore dell’anticipazione riportata dal blog Daily Beast, prima di procedere il presidente dovrà vincere le perplessità diffuse all’interno e all’esterno dell’amministrazione. Attualmente, gli Usa schierano 100.000 soldati a cui si aggiungono circa 40.000 effettivi della Nato, che ha già annunciato il ritiro completo delle sue forze entro il gennaio 2015. “Eliminando bin Laden e bloccando la fase più acuta della ripresa dei Taliban, abbiamo completato gran parte della missione che ci eravamo ripromessi di portare a termine dieci anni fa”, ha dichiarato Obama, annunciando il graduale passaggio dalla contro-insorgenza e dal nation-building ad una strategia essenzialmente anti-terroristica.
Fine dei giochi? Non è detto. Il segretario di Stato, Hillary Clinton, condivide le preoccupazioni filtrate dal Pentagono rispetto a un ritiro troppo rapido che consentirebbe ai Taliban di rialzare la testa. Clinton si colloca a metà strada tra i militari, che propendono per uno sfoltimento (3-5.000 uomini) e la linea del vice-presidente, Joe Biden (ritiro di 30.000 effettivi). Anche sulla velocità del processo di ritiro emergono divisioni. Il generale David Petraeus, comandante delle forze Usa e Nato in Afghanistan e prossimo direttore della Cia, ha parecchi dubbi in proposito, ma anche un accordo con il presidente che lo vincola a esporgli il suo punto di vista privatamente. Leon Panetta, predecessore di Petraeus alla Cia e successore di Robert Gates alla Difesa, mantiene un basso profilo ma non è un mistero che tema un ritiro troppo precipitoso.
Oltre a ricompattare le fila dell’establishment politico e militare, Obama dovrà trovare le parole giuste per giustificare le sue scelte. Dal riconoscimento della sconfitta di al-Qaeda in Pakistan e Afghanistan alla necessaria responsabilizzazione delle forze nazionali di Kabul. Vi è inoltre l’urgenza di impostare una grande strategia geopolitica per contenere e scoraggiare l’estremismo in Asia centrale grazie alla collaborazione di India, Cina, Russia, Pakistan e persino Iran. Tutti paesi che temono la diffusione del radicalismo veicolato dai Taliban nelle aree di loro interesse e pertinenza geografica. Infine, Obama può brandire l’elemento interno, ossia la necessità di sgravare l’economia nazionale dai costi bellici. Argomento molto efficace anche se Jay Carney, responsabile ufficio stampa della Casa Bianca, tiene a precisare che “ogni decisione viene presa con un occhio di riguardo ai costi, ma sempre e comunque nell’interesse primario della sicurezza nazionale.” Ciò non toglie che ridurre il debito Usa sia essenziale per mantenere la forza militare e l’influenza diplomatica sugli affari globali. Risparmiare 100 miliardi di dollari all’anno del budget del Pentagono come conseguenza del ritiro dai teatri iracheno ed afghano rappresenta un’ottima motivazione per procedere. Quel che accadrà a Bagdad e Kabul nei prossimi cinque anni non influirà in maniera decisiva sui destini dell’America, legati invece a doppio filo alla gestione dell’instabile debito nazionale, conclude Gelb.
Come noto, il Fondo monetario internazionale (Fmi) è sempre stato diretto da un europeo, in conseguenza dell'annoso patto che tradizionalmente assegna la Banca Mondiale agli Stati Uniti. Da almeno un decennio questa consuetudine è sotto attacco, poiché, mentre i paesi a economia matura collezionano performance economiche non entusiasmanti, le potenze emergenti di Asia, America Latina e Africa crescono e apportano idee e capitali alla global economy in evoluzione. Anche il cambiamento nella geografia delle crisi è abbastanza eloquente. Se in passato l'instabilità economica si trasferiva spesso dalle potenze del primo mondo alle economie emergenti (estese, popolose ma povere), la grande crisi del 2008, nata in America e giunta in Europa, non ha avuto effetti devastanti nei paesi emergenti, che si sono dimostrati resilienti.
Un riconoscimento della realtà sul terreno sembrerebbe scontato, sottolinea Sebastian Mallaby, economista del Council on Foreign Relations, dalle colonne di Foreign Affairs. Tuttavia, la domanda "Riusciranno i Bric (Brasile, Russia, India e Cina) e le altre economie in ascesa a conquistare la guida del Fondo monetario?" richiede una risposta articolata. Da un lato, dopo l'uscita di scena di Strauss-Kahn, l'Europa ha fatto quadrato intorno alla figura di Christine Lagarde, ministro delle Finanze francese che appare la naturale favorita. Dall'altro, il fatto che la Francia rappresenti il 2.9% dell'economia globale, la Cina il 13.6 e l'India il 5.4 non può certo essere ignorato e questa volta verrà fatto pesare al momento della scelta. Infine, il rivale della Lagarde, il messicano Agustin Carstens sembra avere le carte in regola per condurre una campagna efficace. Mentre i paesi europei sono impegnati a rimpiazzare il fallimentare piano di salvataggio della Grecia con provvedimenti analoghi e destinati anch'essi al fallimento, Carstens sottolinea le necessità per i paesi afflitti da un debito irreparabile di ridurlo mediante lo strumento della ristrutturazione. Un indirizzo chiaro a fronte della titubanza della Banca Centrale Europa (Bce), sostenuta dalla Francia.
Le possibilità di successo di Carstens sono comunque legate alla fine delle litigiosità tra i Bric che, sebbene dichiarino di auspicare un processo trasparente e meritocratico per la nomina del nuovo direttore del Fmi, seguitano una battaglia sotterranea di veti incrociati e divisioni. Infine, il ruolo dell'America: Obama non ha sinora dato seguito all'intenzione espressa di un maggior coinvolgimento delle economie emergenti nelle istituzioni globali. Su questo terreno, il cambiamento forse dovrà attendere ancora. E' di questi giorni la perentoria affermazione della cancelliera tedesca, Angela Merkel: "Ci sono buone ragioni per mantenere la direzione del Fmi all'Europa."
Uno studio della Brookings Institution conferma l'inerzia che spesso sembra colpire le istituzioni multilaterali e gli Stati davanti al fisiologico evolvere delle grandi sfide globali, tra le quali la lotta alla povertà estrema.
Nonostante tutto, stiamo vivendo un periodo di rapida diminuzione della povertà globale. Secondo stime recenti, riprese dai ricercatori della Brookings, Laurence Chandy e Geoffrey Gertz, tra il 2005 e il 2010 quasi mezzo miliardo di persone ha superato la soglia di 1.25 dollari giornalieri per la sussistenza. Mai così tanti individui si sono sollevati dall'estrema povertà in un lasso di tempo talmente ridotto. Il panorama della povertà del mondo sta cambiando: aumenta il numero di poveri nei paesi a medio reddito e in quelli fragili. Questa evoluzione mette in questione gli strumenti classici utilizzati dalla comunità internazionale per affrontare il fenomeno.
L'accresciuta prevalenza della povertà nei paesi a medio reddito rappresenta per molti versi un successo, fotografato dal crollo nell'ultima decade delle nazioni considerate a basso reddito (40 contro il centinaio abbondante a medio reddito). Il fatto che alcuni di questi Stati in ascesa economica (India, Nigeria, Pakistan) conservino un numero enorme di poveri spiega ampiamente l'aumento degli indigenti nei paesi a medio reddito.
Davanti al cambiamento di scenario in atto, urge pertanto un nuovo modo di pensare e di approcciarsi al problema della povertà globale. Non sarà facile, perché i vari attori internazionali che si occupano di cooperazione allo sviluppo (Stati, ong, istituzioni multilaterali) si sono ormai abituati a lavorare con paesi strutturalmente e stabilmente poveri, usando un pacchetto di strumenti consolidati quali l'assistenza tecnico-finanziaria esterna. Invece, i Paesi a medio reddito caratterizzati da instabilità non devono fronteggiare particolari limitazioni finanziarie (in particolare, per quanto riguarda l'accesso ai mercati dei capitali). Questi Stati sono riusciti a raggiungere un livello di sviluppo economico notevole, ma non appaiono in grado di tradurre la crescita in stabilità e in buone prassi di governance. Essi non seguono una traiettoria lineare di sviluppo dalla fragilità alla stabilità e alla crescita di reddito, come vorrebbero le teorie ortodosse dello Sviluppo Economico.
Gli stessi donatori si trovano in difficoltà nel tentativo di convincere i governi dei paesi a medio reddito a seguire un determinato corso d'azione per mezzo di riforme politiche. In questi casi risulta più difficile "comprare" riforme politiche in cambio di aiuti economici. Infatti, i governanti riluttanti (a differenza dei loro omologhi dei paesi più poveri che sono sensibili a questa leva) hanno comunque la possibilità di accedere a flussi finanziari in grado di supplire ai mancati aiuti.Data la rilevanza geopolitica di questi paesi e le conseguenze disastrose di un loro eventuale collasso, la comunità internazionale ha comunque il dovere di elaborare nuovi approcci per stabilizzare i loro sistemi economici. In gioco vi è la riduzione dell'evidente disparità nella distribuzione delle risorse in aree dove vive una vasta porzione dei diseredati della terra. (A cura di Fabio Lucchini)
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